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Recensione Donna Tartt Intervista
da La Stampa
Dopo aver ottenuto nel 1992 un successo mondiale con il suo primo romanzo Dio di illusioni, di cui si doveva fare un film regista lo scomparso Alan Pakula, Tartt scomparve per dieci anni. Si disse di tutto. Che era morta, che aveva comprato un´isola e ci si era ritirata, che era stata colpita dalla maledizione del secondo libro, vale a dire il crampo dello scrittore incapace di scrivere. Invece è ricomparsa con 700 pagine sotto braccio, le stesse per le quali aveva ricevuto un anticipo pari a più di mezzo miliardo di lire. Era Il piccolo amico (appena pubblicato da Rizzoli, nell´ottima traduzione di Idolina Landolfi e Giovanni Maccari, 681 pagine, 18 euro). Donna Tartt è a Roma per presentarlo. Ha 38 anni ed è solare, simpatica, molto spiritosa e per quell´ora di chiacchierata non compare sigaretta tra le sue dita. Beve acqua e ha davanti una tazza di tè. Parla dei prossimi progetti, due saggi. Ride all´idea di essere passata per morta. Scaramanzia: «Quando ho scritto il primo libro il mio telefono non squillava mai e a nessuno importava se e quando l´avrei finito. Nelle sue lettere a un giovane poeta Rilke diceva che bisognava approfittare di quel momento magico quando nessuno ti conosce, poi tutto cambia. Per scrivere si ha bisogno di solitudine. Essere corteggiati è bellissimo ma si rischia di morire. Ti chiamano per conferenze, la gente vuole parlare con te. Si è uccisi dalla gentilezza e poi si uccide la scrittura. Io ho trovato il mio equilibrio. Mi devo raccogliere altrimenti non funziona». E pare si sia raccolta bene perché la sua storia, Il piccolo amico, funziona. «Non è proprio un thriller ma parte da lì. In una piccola cittadina del Mississippi, Alexandria, la dodicenne Harriet Cleve Dufresnes, in una strana estate, cerca di scoprire chi ha ucciso il suo fratellino di nove anni quando lei aveva solo sei mesi. Harriet, che ha una sorella un po´ più grande segnata dalla sciagura, cresce all´ombra della sagoma dell´impiccato, sotto le fronde di quell´albero attorno al quale lei gioca, sogna, cresce. L´accompagna in questo viaggio un piccolo amico, Hely, col quale si immerge in avventure, genere Isola del tesoro. Accanto si muove una famiglia larga fatta di donne, una mamma risucchiata dalla sciagura fino a piombare nella narcolessia, zie, nonne e un padre assente e duro».
Quanto c´è di maschile e quanto di femminile nella sua scrittura?
«Un 50 per cento di tutte e due. Virginia Woolf diceva che un buon romanziere deve essere al tempo stesso uomo e donna. I personaggi più belli consegnati alla carta sono stati scritti da Shakespeare che sapeva recitare tutte le parti: donna uomo, bambino. Bisogna calarcisi al punto da essere convincenti a se stessi. Tanto è profonda l´immedesimazione, tanto è buona l´opera. Nel mio libro sono entrata nel mondo dei bambini e nel mondo degli anziani, signore stanche della vita e persone che alla vita si affacciano con entusiasmo».
Una difficoltà, quella di capire l´universo infantile, che l´ha portata a isolarsi per dieci anni. Ha attinto ai ricordi della sua infanzia o ha spiato altri bambini?
«È qualcosa che ricordo della mia infanzia. Avere accesso ai propri ricordi ti porta a vedere e a fare cose che credevi perdute. I genitori di solito tendono a dimenticare, io invece sono facilitata perché non ho figli. Un bambino non ha potere, non ha denaro, non ha indipendenza, allora mente per ottenere quello che vuole».
Il suo libro, solo in Olanda, ha venduto 800 mila copie, una ogni venti persone. Eppure è una storia molto americana. Gli odori, i sudori, i climi, gli alberi, riportano come percezione a Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Ha ricercato le stesse suggestioni?
«Non credo alla letteratura che è del Sud e a quella che è del Nord. Ma Harper Lee è cresciuta a duecento miglia da me, dunque ci sono delle analogie in questo senso anche se lei descrive un´infanzia magica, invece quella che io metto in scena è un´infanzia da incubo, senza quella levità».
Lei ha sostenuto che c´è poco di autobiografico nel Piccolo amico. Eppure lei aveva una famiglia matriarcale quasi quanto quella di Harriet, una bisnonna fantastica che le leggeva poesie, una mamma molto presente. E suo padre di cui parla poco.
«Mio padre è stato molto presente nella mia infanzia, non parlo con lui da quando avevo vent´anni, dunque non ha inciso nella crescita. Mia bisnonna mi ha cresciuta, una donna materna, amante dei bambini, si correva sempre a casa di "baba" per essere felici. La famiglia di questo libro è la mia famiglia ma vista con una lente distorta, per questo non lo vivo come autobiografico. Non mi tradisce. Non mi svela. Mi lascia tranquilla».
La sua storia si ambienta negli anni Settanta, l´omicidio accade nel 1963, quando lei è nata, ma abbraccia il decennio successivo. Eppure si ha la sensazione che sia senza epoca, perché le comprende tutte. Effetto voluto?
«Specificatamente non ho voluto usare un tempo preciso, le date sono ininfluenti. È vero, il Mississippi (io sono nata a Greenwood ma sono cresciuta a Grenada, tutta provincia), è rimasto lo stesso in tutto il XX secolo. Uno Stato povero, io sono stata allevata come sono state allevate mia madre e mia nonna. I circoli femminili, i party in giardino, l´odore di torte in cucina. E io ho un olfatto molto acuto che è gioia e tormento».
Lei ha orchestrato il suo libro come una partitura. Pare di sentire i timbri e fiati. Come ci è riuscita?
«Ho ricercato spontaneità e musicalità. Il Sud ha cantilene e una forte tradizione folk. Volevo cogliere questa caratteristica con attenzione metrica. Scandivo una frase come fosse un verso in prosa, evitavo gli effetti cadenzati, per dare più lirismo. Allora era indispensabile scrivere come musica».
Una domanda d´obbligo riguarda la guerra appena scoppiata. Si vede che ha antenati pellerossa, non si scompone: «Perché chiedere a me? Io scrivo romanzi».
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