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Recensione Alfredo Antonaros Col suo quinto romanzo Alfredo Antonaros (1950) prende ancora una volta un percorso diverso dopo gli inizi che, con Tornare a Carobel (1984), Mahò. Storia di cinema e di petrolio (1987) e Per Sarah (1989), l' avevano segnalato tra le voci più interessanti e nuove della sua generazione, per il narrare radicato in una storia privata di autore nato da padre italiano e madre greco-eritrea. Ne veniva un tono mitico e favoloso dai risvolti di realismo visionario, le cui inquietudini si sarebbero poi trasposte nelle interrogazioni più metafisiche de La piattaforma (1997). Ed è per una dimensione che direi mediana che Antonaros opta con L' anno dei giorni rubati, al cui centro sta la vicenda del tempo, rivisitato nelle traversie soprattutto politiche del passaggio dal calendario Giuliano al Gregoriano che nel 1582 cancella dieci giorni, traghettando d' un colpo il mondo occidentale dal 4 al 15 ottobre. E però narrato nella prospettiva per certi aspetti richiamante le prime opere, per l' andamento tra realistico, fantastico e magico-picaresco, cadenzato da una scrittura tra divertita, scanzonata e grottesca. A dettare questo aspetto, calato soprattutto su personaggi e società di potere, è la duplice prospettiva del racconto. Più bassa la prima: gli occhi del ciociaro che guida i tre prelati che nel 1576 circa su ordine del gesuita Cristoforo Clavio si recano a Cirò dal medico matematico e astronomo Luigi Lilio per coinvolgerlo nella commissione che sta approntando il nuovo calendario voluto dal bolognese papa Gregorio XIII. Appena più alta la seconda: di Antonio Lilio, il fratello di Luigi, alla cui morte decide di portare di persona al papa il prezioso manoscritto (svanito nel nulla: ne restano tracce nella decina di copie superstiti del Compendium trattone per la commissione nel 1577, da cui l' anastatica del 1982). Ed è soprattutto con Antonio, nella realtà medico e astronomo («artium et medicinae doctor», lo saluta il papa all' atto della consegna, ricordato da un monumento nella Basilica Vaticana), ma che Antonaros reinventa come cantore della cattedrale di Cirò, che il romanzo assume il doppio tono: mitico-picaresco nel soggiorno romano fatto di contrasti col papa e ancor più nelle disavventure tipografiche del monopolio per la stampa universale del calendario, salvato dalla forca papale proprio dal suo canto angelico; e quello più intimistico e sensualmente sentimentale con l' altrettanto bel personaggio della sua serva. Nato nel cinquecentesimo anniversario della nascita di Luigi Lilio (1510), vera mente scientifica del calendario, il romanzo si struttura sul gioco di specchi tra racconto falsificante la storia e le numerose note che saldano il fantastico al reale su ogni piccolo aspetto storico (e però disturbanti la lettura, sicché le tralasci per tornarci alla fine). E se regge quasi sempre il gioco che mescola i dialetti, altalenanti sono invece l' insistito pedale del grottesco (ben gestito coi paesani calabresi, meno con corte papale e Papa), e l' eccesso di casistica - peraltro a volte davvero goduriosa - sulle disfunzioni di quei dieci «giorni rubati». Quanto alla postfazione di Margherita Hack: se ne poteva tranquillamente fare a meno. RIPRODUZIONE RISERVATA L' autore Alfredo Antonaros è nato in Eritrea, a 6 anni s' è trasferito in Italia. Autore di romanzi, scrive anche per cinema e teatro, fa il conduttore per il Gambero Rosso Channel. Il libro Alfredo Antonaros, «L' anno dei giorni rubati», Pendragon, pp. 144, 16 Di taracchini
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