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Recensione Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino

Diceria dell'untore

Gesualdo Bufalino Diceria dell'untore
Gesualdo Bufalino Diceria dell'untore

E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d’aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita.


 


 


Ci sono romanzi che iniziano in sordina, quasi che l’autore sia timoroso di offendere il lettore travolgendolo da subito, ma che poi pagina dopo pagina, riga dopo riga si intrufolano, ma sempre in punta di piedi, nell’animo di chi dapprima scettico sente crescere in sé un entusiasmo che non lo lascerà fino alla fine.


C’è una narrativa che, pur non cercando di indulgere alla commozione, poco a poco insinua nel cuore una vena di malinconia, mettendo a nudo e alla prova la capacità di sentire e di umanamente comprendere.


C’era un vecchio insegnante che ha voluto parlare della vita di uomini vicini alla morte e in tal modo è riuscito a far comprendere quanto, in quell’attesa, si possa ancora essere uomini.


Ecco, Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino è tutto questo.


Pubblicato per la prima volta nel 1981 ottenne subito un grande successo di critica e di pubblico, vincendo il Campiello lo stesso anno.


E’ stato, quindi, un debutto clamoroso, sia per la qualità dell’opera che per l’età dell’autore, che all’epoca aveva sessant’anni.


Bufalino racconta l’esperienza autobiografica della degenza nel sanatorio della “Rocca” di Palermo, un percorso della memoria che dapprima lo portò ad abbozzare il testo verso il 1950, scrivendolo poi nel 1971 e dedicando i successivi dieci anni a continue revisioni.


La trama in sé, che potremmo definire “una tresca d’amore e di morte”,  si può ben riassumere, senza per questo togliere il piacere della lettura, in quel che al riguardo dice Bufalino:


“Si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in un sanatorio della Conca d’Oro, nel ’46. Fra il protagonista e una paziente dai trascorsi ambigui (Marta) nasce un amore, puerile  e condannato in partenza, più di parole che d’atti, il cui sbocco è una fuga a due senza senso, e, subito dopo, la morte di lei in un alberghetto sul mare. Egli, invece, guarisce, inaspettatamente, e rientrando nella vita di tutti, vi porta un’educazione alla catastrofe di cui probabilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre.”


E’ una interpretazione dell’eterno connubio di eros e thanatos, in cui nulla è lasciato al caso, tanto che Marta, amante dell’io narrante, ha le stesse consonanti della morte.


Fra l’altro, in questo romanzo stupiscono lo stile e l’abbondanza del linguaggio, che a tratti presenta caratteristiche baroccheggianti, soprattutto prima di introdurre profonde riflessioni, quasi che il ricorso a parole inconsuete, anche se nel passato utilizzate da letterati, servisse a procedere con maggior lentezza, predisponendosi così a una pausa meditativa.


Resta il fatto che sovente ci si trova di fronte a ampi laghi di parole, messe in bocca anche a personaggi che per le loro caratteristiche dovrebbero avere invece un lessico più modesto, il che dapprima mi ha indotto a pensare che in tal modo Bufalino volesse dare dimostrazione della sua erudizione, ma poi riflettendo, accostando le parti dell’opera fra di loro, credo d’aver capito i motivi e cioè evidenziare la forza dirompente del verbo in un ambiente immobile quale quello di individui che si trascinano alla fine, dove i suoni normalmente dovrebbero essere solo i frequenti colpi di tosse, e che invece danno un senso di intensa vitalità - potremmo quasi pensare agli ultimi fuochi – in chi è solo in attesa.


I personaggi, che potremmo chiamare i morituri, non sono mai semplici comparse, perché ognuno ha la sua storia nella storia comune dell’imminente fine, un residuo di vita che ogni giorno si spegne e che è retta da un patto tacito di non sopravvivere gli uni agli altri.


Compagni di sventura, emblemi di un’umanità che è parte del ciclo generale della vita, un cerchio infinito di nascite e morti che Bufalino ben tratteggia nel corso della fuga dei due protagonisti principali con l’immagine dell’agave, a cui occorrono dieci anni per fiorire, ma che, subito dopo, muore, una metafora per dire che la vita necessariamente salda  con la morte il debito contratto per esistere.


Del resto, nell’opera sono contenuti diversi messaggi, anche se elementi salienti sono certamente il sentimento della morte, il sanatorio visto come luogo di sicurezza, più dalla vita che dalla morte, e addirittura quasi incantato, nonché l’imprevista guarigione considerata come un tradimento nei confronti dei compagni di sventura, quasi una diserzione da un destino che si è comunemente accettato.


Diceria dell’untore è sicuramente un romanzo stupendo.

Di Renzo.Montagnoli

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