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Recensione Yukio Mishima

Yukio Mishima

Confessioni di una maschera

Yukio Mishima Confessioni di una maschera
Yukio Mishima Confessioni di una maschera

Raccontare la trama di Confessioni di una maschera sarebbe illecito. Ridurlo ad un mero elenco sterile e freddo di fatti che si succedono sarebbe poco meno che un delitto. Perchè la bellezza di Confessioni... non sta nella storia, nel protagonista, dissimile ma in fondo non tanto da una canonica immagine di eroe, nelle conseguenze e negli sviluppi delle sue azioni e delle relazioni con i personaggi secondari, nella guerra che fa da sfondo alle vicende, nelle descrizioni e negli ambienti. La bellezza di questo romanzo sta nell'analisi, e autoanalisi, del protagonista, del suo conflitto fra forma e natura, del contrasto fra ciò che si è e ciò che si pretende di essere. Sta nella sottile e perpetua costruzione di una maschera, una maschera perfetta e senza incrinature e nel suo progressivo sbriciolarsi, frammento dopo frammento. Sta nella crescita e nella costruzione della perversione, nelle sue evoluzione e maturazione, nel suo germogliare e divenire prima gioco inconsapevole, poi desiderio carnale, poi inappellabile imperativo, infine contraddizione, macigno, confine sottile, limite invalicabile.
Il conflitto interiore e questo suo diventare, giorno dopo giorno, mascheramento crudele e sublime insieme, è raccontato, analizzato, sezionato da Mishima con estrema eleganza. Sempre, nella sensualità come nella brutalità del desiderio, Mishima accompagna le parole, le conduce. Con insuperabile e distinto portamento, fluidamente prima crea e poi sbriciola la materia della maschera.
Ci racconta del suo eroe, del suo protagonista, senza mai descriverlo direttamente, materialmente. Lascia che il suo proprio intimo denudato senza pietà delle pagine del libro sia il suo biglietto da visita, lascia che quel tumulto di emozioni di pulsioni non abbia un volto, non abbia un forma rigida e formale, come vorrebbe il codice morale al quale il fantasma dell’omosessualità, della mancanza di desiderio carnale per la donna, deve suo malgrado piegarsi (la maschera, che dovrebbe divenire per sua natura il piegamento di quel regime morale al quale il protagonista è sottoposto è in realtà materializzazione della sua stessa sconfitta). Così il protagonista non è che un nodo inestricabile di costruzioni mentali e sublime immaginazione, crudeli macchinazioni che diventano urla laceranti e bestie rabbiose che prendono il nome ora di rimorso, ora di insicurezza, ora di sofferenza. Ma persino i luoghi, le persone che il protagonista incontra non sono che maschere, che forme indefinite di cui conosciamo la proiezione immateriale nella mente di Kochan: e la guerra è strumento di morte, romantica parentesi di distruzione e annientamento, Sonoko è purezza e castità e della donna rappresenta l’essenza pura e semplice, genuina, nella verginità e nella maturità e così ognuno dei personaggi, cominciano dagli amori di Kochan, dai corpi efebici su cui concentra le sue disperate perversioni, tutto è saldamente ancorato alla proiezione, al mascheramento, all’allontanamento dalle forme stereotipate per approdare in immagini di se stesse più confacenti alla natura del protagonista, che è vittima e plasmatore del suo stesso universo.
Bellissimo e interessantissimo è anche il duplice contrasto fra amore e desiderio, fra corpo e anima che in Kochan è così radicato da rasentare la perfezione. La separazione, la sottile differenza fra un’erezione e un batticuore sul tram, tutto risiede nelle due dimensioni dei suoi sentimenti. L’attrazione carnale è per il corpo che trasuda virilità dei suoi efebici o giovanili e ardenti amori non corrisposti e cui corrisponde una povertà intellettuale che permette al desiderio di incarnarsi così, puro e crudo; l’amore, questo sentimento vago e moralmente accettabile, sublime ma non sensuale corrisponde non al corpo di Sonoko, ma al suo sguardo, alla sua voce stanca, alla sua purezza, alla sua solidità. Non c’è contrasto maggiore di quello fra i sentimenti, peregrini disturbatori dell’animo umano e Mishima ha saputo condensarli sapientemente e con grande eleganza. La sua sensualità non è mai volgare, le sue riflessioni mai noiose e sempre stimolanti, l’atmosfera leggera e tiepida mai opprimente ma sempre tenue e candidamente luminosa. In Questo si riconosce la delicatezza dei giapponesi, la pacatezza con cui trattano le grandi questioni, ma si riconosce anche una nota magnificamente aspra, tipica delle sue opere, che trasuda dalle pagine, quasi impercettibile. E questa sua asprezza completa e arricchisce il tutto, senza mai disturbare.
Niente da dire…di fronte ad un grande intelletto, bisogna solo tacere e chinare il capo con rispetto.

Di Hellionor

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