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Recensione Thomas Mann Un racconto straordinariamente complesso. Un racconto nel quale si segue con fiato corto Thomas Mann che via via snocciola non solo una storia, ma un intero pensiero che abbraccia le arti, la bellezza, la perdizione, la filosofia. Lo si segue ora a fatica, ora delicatamente, godendo di tanto in tanto del condividere qualcosa che si avvicina alla reciproca comprensione, mentre il suo personaggio, Gustav von Aschenbach, il suo artista, viene condotto brutalmente sulla via della perdizione, di quella morte tristemente ed enigmaticamente annunciata. E vi è condotto proprio quando, all’inizio, proprio sul bordo, il fato o forse un nume gli invia un segnale di vita, di viaggio, lo richiama al movimento, all’esaltazione dello spostamento, del vivere, un vivere che, da artista che attraverso l’abnegazione all’arte espia la colpa dell’arte stessa, si è arbitrariamente precluso per inseguire la bellezza perfetta, quella che per Mann è la sola legittima, l’arte che è frutto di intenso lavoro e non nasce da una subitanea, spontanea e presto svanita passione per le cose umane. Dunque, si snoda in un’ottantina di densissime pagine non solo quel viaggio verso la perdizione, verso la preannunciata morte, ma un percorso verso la perdizione morale che si consuma dell’amore peccaminoso per il giovane Tadzio e il pensiero di Mann a proposito dell’arte, accennato e mai approfondito in Tristano e Tonio Kröger . Gli artisti di Mann sono artisti che espiano una colpa, la colpa dell’arte. Mann ne riconosce la distanza, la distanza da ciò che è umano, da ciò che è la norma. Tonio Kröger ne ritrova le tracce, redimendosi in parte senza mai, però, ricucire lo strappo che si è venuto creando, nel proprio stesso corpo, fra l’uomo e l’artista. Detlev Spinell ne è forse la caricatura, un artista che lavora di penna e di parole gustose, ma che perde dignità e baldanza quando, non più protetto da una disciplina che quasi trattiene e doma il suo essere artista e lo lascia in balia delle sue innate debolezze, si trova ad affrontare una situazione reale. Allora, quasi si avverte un qualcosa che potremmo definire critica a proposito dell’arte? Forse, forse un’espiazione autobiografia di un artista che si redime per legittimare il persistere dell’azione delittuosa (l’arte, l’inseguimento della bellezza). Morte a Venezia, parlando in questi termini, potrebbe essere, nonostante sia ad essi precedente, il compimento degli altri due racconti. Un pensiero che trova la propria completezza solo in Morte a Venezia, nel quale si manifesta, dopo un lungo e articolato percorso, nel richiamare le figure di Seneca e Fedro, il vecchio e il fanciullo, e nell’ammissione eterea e definitiva insieme della condizione dell’artista, questo suo procedere inevitabilmente verso la perdizione e la morte. Malattia, morte come arte. Questa continua metafora. Illuminanti risultano i toni, a questo proposito. Come cambieranno poi in Tristano e Tonio Kröger, l’uno lirico e l’altro retorico (ironico), come saranno lievi e frizzanti, come risulterà omogeneo e solido il monocromatismo di questi due racconti successivi. In Morte a Venezia i toni mutano, seguono il percorso verso il degrado (morale e fisico). La piattezza e la calma opprimente delle prima pagine, pagine di stasi, di preludio al moto, al cambiamento, alla brusca virata, toni man mano più caldi e seducenti, man mano che procede in Aschenbach il puro sentimento, man mano che esso si abbellisce, man mano che esso diventa arte (come si ripete la parola bellezza a mettere in evidenza quanto sia effimera, quanto sia eterea, quanto sia poco umana, quanto sia poetica, quanto non esista eguale). Poi si abbrutisce, si brutalizza in un delirio quasi scomposto, in cui qui e là ancora si avvertono le liriche parole di Seneca, man mano che della perdizione del corpo e della mente si avvertono le avvisaglie (crudele, Mann non fa che sottolineare il contrario fra vecchio e bello), man mano che l’artista si corrompe e abbandona la morale, perché votandosi al bello non può farne a meno. Il linguaggio, così snodato, è ora delicato, ora brutale, ora barocco, sempre molto metaforico, molto ricco, molto bello. Che dire? L’ho letto inseguendo Mann, cercandolo tra le pagine del racconto. Ma si può leggere anche solo gustandolo, gustandosi il magnifico climax, il magnifico srotolarsi del racconto, delle sue fitte trame e dei suoi significati, delle sue quasi allegoriche metafore. Alcuni passaggi meritano una lettura che sia tutta cuore. Bello, intenso, complesso, profondo. Di Hellionor
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