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Recensione Grazia Giordani

Grazia Giordani

La bretella rossa

Viveva in un minuscolo appartamento del centro, Ippolito Fiamma, professore in pensione. O meglio «si viveva». Visto che aveva condotto un’esistenza ermeticamente chiusa dentro il suo ego, penosamente introflessa. Sotto la sua matita rosso-blu erano passati quarant’anni di temi e versioni greche e latine senza che in lui restasse un solo ricordo amoroso per i suoi scolari.
L’intera camera dei suoi sogni era murata per sempre; la donna vera, di carne, non vi era entrata mai se non come ente astratto, iperurania, sterile fantasia.
Giovanna Guardi era stata sua allieva oltre vent’anni prima. Lo vide soto il portico di fronte la vetrina della sua libreria, alto, possente, un po’ rigido, i lineamenti tirati, gli occhi vividi, screziati di minuscole venuzze.
La signora minuta si alzò quasi sulla punta dei piedi, con mossa birichina e confidenziale, per battergli la mano su una spalla.
«”Profe”, si ricorda di me? Primo banco, seconda fila, da lei definita Guardi la tracotante”?»
Ippolito accennò un sorriso aspro e, con la sua voce ruvida - venata di un vibrato profondo - «sì, la riconosco, cosa fa qui, vende libri?»
«Mi piace stare tra la carta stampata, è bello il rapporto tattile con la parola scritta, mi fa sentire un’eterna scolara… Prendiamo assieme un caffè?»
Il professore esitò, poi acconsentì. Temeva i commenti di chi non era abituato a vederlo in compagnia femminile.
Era lusingato, anche se sentiva nei confronti di quell’allieva di un tempo, dal profumo troppo aggressivo e dalla femminilità così prorompente, un’istintiva «contropatia», un’oscura voglia di difendersi.
Al bar parlarono fitto: il passato irrompeva fra loro come un fiume senza argini, procurando il piacere malinconico delle nostalgie.
Giovanna era meravigliata dell’attenzione che il professore sembrava prestarle, la sua voce la cullava, il suo eloquio lucido, inesorabile, creava un incanto sottile, una magnetica malia.
Pensò fra sé: Datti una regolata, sei dunque così stanca di ammiratori fatui, presi dalla corsa del successo, dal footing e dallo sport, da subire il fascino dei matusa, nostalgici di Erodono e Senofonte?
Si accorse che le sarebbe piaciuto tornare a scuola, essere nuovamente guidata, corretta; avrebbe voluto che il suo professore estraesse dalle tasche logore della giacca un piccolo registro di classe e le dicesse, come un tempo, il voto…
Lo charme malato di quel vecchio un po’ ambiguo, decadente e i suoi discorsi insinuanti, le davano un a strana eccitazione. Le piaceva farsi trascinare nella sua realtà metafisica, nel suo mondo dove, allora, lei pensava nemmeno la morte l’avrebbe fatta morire.
«Posso rivederla domani?»
Pensò che aveva un appuntamento, ma fu ancora più rapida nell’accettare e decidere di disdirlo.
«A che ora?»
«Alla chiusura della mia libreria.»
Quella notte Giovanna non dormì. Pensò alla bocca un po’ vizza, alle mani dalla pelle sgualcita, al passo lento, all’incipiente calvizie del professore. Di per sé non erano certamente elementi di seduzione, ma venivano annullati e sopraffatti dalla sua parola che l’incantava come un canto di sirene malate, lievemente perverse, ma non per questo meno suasive.
Voltò fianco nel letto. Decise di non rivederlo.
L’indomani Ippolito la chiamò al telefono. Le bastò sentire la sua voce per aver voglia di correre, correre da lui.
Era ingorda dei suoi pensieri, della sua ruvida ironia-
Come i drogati che ingannano se stessi, pensava: tanto me lo scrollo di dosso quando voglio. Si era creata quasi un’allucinata dipendenza nei suoi confronti. Non le importava più della libreria, degli amici, dei parenti che trovavano sempre il suo telefono occupato o lei svagata, infelice, smagrita.
Indossava un tailleur di lino bianco e si era truccata con minuziosa cura, Giovanna, il giorno che decisero di andare a pranzo in collina. Ippolito la guardò con ammirazione, sfiorando appena – guidando l’auto su per il colle – il suo piccolo ginocchio quasi infantile, inguainato nella calza a rete.
«Sembra pelle di serpente – le disse – questa calza a scaglie è ruvida come certi miei umori …»
Scesero dall’auto. Si inerpicarono su per il colle in un tripudio di ginestre. Il volto sottile di Giovanna si illuminava alle parole del suo “profe”. Qualunque cosa le dicesse, le pareva da eternare sulla lapide..
Sedettero sotto una piccola pergola. Salame e sottaceti fu il frugale pasto. Ippolito non maneggiava con garbo le posate e – nel bere – “sifonava” un po’ i liquidi, ma citava Catullo con voce vibrante d’amore (amore per lei o per se stesso?) e questo – nella sua ingenua smania di “intellettualità” -, nel suo infantile culto e venerazione della cultura, intesa come humanae litterae, le bastava procurandole una strana ubriacatura, uno stordimento consapevole, una gioia disperata..
Risalirono in macchina.
Già si raggrumavano le prime ombre della sera.
Giovanna provava lo strazio di una gioia infelice.
Si chiese cosa avrebbero pensato i suoi amici se avessero saputo.
Guardò nello specchietto il suo volto gentile e curato, gli occhi impreziositi da un lieve strabismo, colpevole di una scintillante malizia, i primi capelli bianchi nascosti fra calde mèche, un accenno di rughe leggere, occultate da false sicurezze.
Si odiò per il suo attaccamento a quel vecchio, per il suo bisogno di quella voce, per il suo amarla senza amore. Temette immediatamente di perderlo e, a questa prospettiva, il suo cuore si chiuse dentro una lastra di ghiaccio.
Si disprezzò, si giustificò, si assolse, si condannò.
Per qualche giorno non lo sentì al telefono.
Fu lei a cercarlo.
Ippolito era spaventato dallo slancio e dalla irruenza di quella donna che stravolgeva le sue abitudini. Decise di scrollarsela di dosso come una pulce molesta. Ormai aveva dimostrato a se stesso che – pur essendo avanti negli anni, pur non avendo modi da viveur e rendite da Creso – poteva sedurre. Ormai lo sapeva, e Giovanna così gli era venuta a noia. Il suo profumo gli restava appiccicato addosso, a casa gli dava imbarazzo: la vecchia serva avrebbe potuto notarlo. La sua voce recriminante e lacrimevole lo indisponeva. La sua risata, che all’inizio gli era apparsa seducente, ora gli risuonava negli orecchi troppo forte. I suoi innocenti snobismi lo irritavano.
Cominciò a farsi negare al telefono dalla colf arcigna, a nozze nel difendere il padrone da queste inusitate “avances”.
Le scrisse un breve biglietto: «Ti aspetto venerdì alle dodici sotto casa mia, per darti una spiegazione.»
Giovanna chiuse un po’ prima la libreria, e andò fiduciosa.
Pensò. Gli è passato il momento d’isteria, di rigetto nei miei confronti.
Sapeva che non era vero, che voleva ingannare se stessa. Lo attese qualche minuto dopo le dodici. Smagrita, l’aria tirata e sofferta. Il trucco era un po’ sfatto, le sue sicurezze di graziosa quarantenne gravemente intaccate. Sentiva le scarpe stringerle i piedi in una morsa crudele come le sue illusioni cadute. Il rimmel le colava un poco a causa delle lacrime. Pensò di scappare, di salvarsi, mai piedi le restavano fermi a terra, come le radici di un albero.
Ippolito scendeva maestoso e lento la scala, inesorabile come la sua dialettica senza scampo, come i suoi umori mutevoli, come la sua incapacità di darsi.
Le disse: «Andiamo in garage a prendere la macchina, così potremo parlare e dirci addio con un po’ di dignità.»
Giovanna camminò senza avere la sensazione di muoversi, come un robot meccanico.
«Perché vuoi dirmi addio?»
«Perché io sono un abitudinario, perché sono un uomo che è sempre vissuto solo o al massimo in compagnia del gatto o della serva; tu sei pressante, invadente, esuberante. Vivi una fase aggressiva della vita, io sono un uomo in stallo, in garage come la mia vecchia auto.»
Erano arrivati.
Ippolito sollevò con fatica il portone, lo rinchiuse curando di non fare rumore e che i vicini non sentissero la loro presenza.
Da una stretta finestra filtrava una luce sporca come i pensieri del vecchio.
Ippolito prese una seggiola mezzo spagliata. Con mano ferma afferrò di sbieco Giovanna come per un gesto d’amore: la sedette sulle sue ginocchia. Le coperse il volto, posandolo contro il suo petto; sudava copiosamente. Le palpebre gli vibravano in impercettibili tic sugli occhi sbarrati, aperti a forza.
Si tolse la giacca. Aveva un’unica bretella rossa a reggere i calzoni troppo pesanti per quella stagione. La sfilò dalle clips, la avvolse in due giri attorno al collo di Giovanna che era come soggiogata, ipnotizzata, quasi contenta che l’incantamento, la strana malia fosse finalmente spezzata, esorcizzata con la sua morte.
Come in un film rovesciato rivide i suoi allegri anni di studentessa, risentì il passo del professore nel corridoio, la sua voce dal vibrato profondo che commentava Dante.
La piccola e sventurata donna. Vittima della sua fiduciosa follia, emise un gemito roco, come un lamento d’amore: dalla sua bocca uscì un fiotto di sangue. Ippolito vi immerse il dito e scrisse sul muro: «lathe biòsas», vivi nascostamente. Era il suo credo di vita.
Disse fra sé: penserò domani a scaricarla in qualche fosso.
Il delitto rimase per sempre impunito.
Ippolito Fiamma visse per altri dieci anni con l’impagabile sollievo di essersela tolta di torno.
Credeva di aver ucciso anche il ricordo, ma un giorno a tavola, nel tintinnio delle posate, ebbe l’illusione di sentire l’eco tenera della sua risata di donna che dagli orecchi gli entrò nel cuore con una fitta bruciante, e scalfì la corazza della sua indifferenza, solo per un attimo dolorosissimo, subito sconfitto dal suo ipertrofico Io.

Grazia Giordani

(tratto da L’anima del gatto, 1990, Bagaloni Editore)

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