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Una scrittura al lapislazzuli, con gli accordi straussiani in sottofondo - di Federico M. Giuliani (a proposito di Joseph Roth, La marcia di Radetzky, intr. Giorgio Manacorda, trad. Sara Cortesia, Milano, Newton Compton, 2010) Molto opportunamente, in occasione del settantesimo anniversario dalla morte del grande galiziano, Newton Compton d alle stampe i pi celebri romanzi di Joseph Roth: La cripta dei cappuccini, Giobbe, La leggenda del santo bevitore, e questa sublime Radetzkymarsch, evocativa di quellincisivo brano musicale di Strauss padre, che chiamato a conchiudere, con i calici doverosamente alzati, il concerto viennese della mattina dei nostri capodanni. Ed giusto su questa la pi corposa tra le narrazioni appena ricordate, che qui - udendo in sottofondo i piatti e i timpani, e gli archi e i fiati, dell'omologo brano musicale (di felliniana e rotiana memoria) - andiamo a dedicare qualche breve pensiero. Uno dei paradossi della letteratura proprio quello del contrappasso tra verit e metodo, sol che si pensi che, mentre qui si elogia unopera nostalgica del finis Austriae, in contemporanea la nostra Italia va celebrando (pi che rettamente) il 150 anniversario della sua unit, e dunque proprio la liberazione dalla spinta invasiva austro-ungarica (in una con il 138 anniversario dalla scomparsa dell'ideologo antonomastico anti-imperiale, il c.d. Apostolo Laico, l'avvocato genovese di natali e londinese desilio). Mette conto allora, sul punto, dessere "leggeri", e nientaffatto ideologici, tanto indiscussa la levatura di Joseph Roth e tanta altres va detto la stratificazione/accumulazione critica che su di lui, e su di un'opera come questa (si pensi in primis al Mito asburgico di Magris), andata stratificandosi a far tempo dal 1932, cio dalla prima pubblicazione del romanzo in Vienna. Iniziamo con il dire, allora, che di marsine, e di musica e di morte, dicesi au fond di questo splendido racconto, sapientemente assai professionalmente" condotto e sviluppato dal sommo giornalista-scrittore di Brody. Ci sovviene e ci soccorre (unitamente alla summentovata suggestione rotiano-felliniana di rimando musicale), un altro collegamento a detta di taluno forse illecito con il mondo del gran teatro. Viene, cio, da domandarsi perch due giganti delle assi del palcoscenico, quali Vittorio Gassman e Carmelo Bene, non abbiano mai (per lo meno da quel che ci risulta) messo in scena un adattamento - magari monologante - dell'opera in parola. Ch in verit, ai due maestri della scena e della parola, si addiceva assai, secondo il nostro modo di vedere, quell'incedere e quel ritmo che fanno l'architrave del romanzo-Marcia: quei picchi rothiani di dialoghi-spade, quell'incedere marziale appunto, e i bicchierini ingollati, l'uno appresso all'altro dal sottotenente Trotta della mortifera acquavite secca (la solita "novanta gradi", per dirla con il Nostro). E s, perch di Gassman ricordiamo bene, e con struggimento, l'adattamento a monologo della kafkiana Relazione accademica (in almeno tre lingue portato in giro per il mondo dal "superuomo" genovese); e di Bene per parte sua, in collegamento cerebrale, non pu non sovvenire il byroniano Manfred, con lo Schumann messo a fare da contrappunto e a ritmare. Non sappiamo perch, della kafkiana Relazione nella Marcia, non sia stata ripresa l'idea teutonica dell'uomo che si fa bestia e il suo contrario; n d'altro canto perch, del Manfred, non si sia riproposto in una Marcia teatrale il sulfureo e devastato senso della decadenza, il prometeico illudersi dell'abisso senza rimedio n pace. Sta di fatto che cos stato: la vita in fondo, anche per chi ci ha dato tanto come Bene e Gassman, anche sommatoria di ci che non si fatto in tempo/ non si avuta voglia di fare. Ci premesso, in una sorta di divagazione e delizia, va detto che La Marcia si articola su tre generazioni della famiglia Trotta: anzitutto il nonno, ufficiale dell'imperial-regio esercito, salv la vita, ferendosi per lui, a Francesco Giuseppe in quel di Solferino, donde il titolo "von" conferito al casato dei Trotta dal Sommo, in una con la nobilt riconosciuta per debito di valor militare e di (lunga assai) sopravvivenza; dopo il nonno il padre la generazione di mezzo , che un civile funzionario dell'Impero, di stanza vicino alla capitale austriaca in un'algida campagna di levatacce e di burocratiche reiterazioni; infine il figlio/nipote, cio l'ultimo che rimarr della stirpe dei Trotta, anch'egli sottotenente dell'arma e ancora suddito dell'immarcescibile Cecco Beppe, cui la devozione e la fiducia, anche nei momenti di disperato bisogno (un increscioso debito da gioco), fanno efficace ricorso grazie alla "memoria" imperiale dello "eroe di Solferino" (che l'Imperatore scambia con il figlio e crede ancora vivo; ma ci non importa, ch ci che conta il dipinto dell'interposizione salvatrice, a cavallo, tra il proiettile diretto al cuore di Sua Eminenza Imperiale e la spalla del sottotenente al di lui fianco, sui campi fumanti vicino alla citt dei Gonzaga) Il sottotenente nipote dell'eroe di Solferino in servizio ai confini orientali dell'impero, giusto accanto ai cosacchi alcolizzati, con i quali familiarizza bevendo la novanta gradi dalle parti native dell'Autore, nellodierna Polonia Sud-Orientale vicina all'Ucraina. La famiglia von Trotta , in s e per s, rigorismo nazionalista spinto fino all'assurdo della follia pi secca. L'eroe lascia l'esercito soltanto perch, nelle narrazioni sui libri di storia, gli si attribuisce l'appartenenza a un corpo militare diverso da quello effettivo, e per parte sua l'Imperatore Sommo, ricevute di persona le lagnanze del suo salvatore, gli consiglia soltanto di lasciare correre senza punto fare emendare i testi storici; il figlio dell'eroe per parte sua il funzionario in marsina - bens un civile, ma come se indossasse la divisa dei difensori dellimpero, se vero come e vero che egli, finanche al cospetto di jaspersiane "situazioni-limite" di Thanatos, resta di ghiaccio rimembrando a pena qualche cosa e pure stando muto, duro come un iceberg perch le parole sono inutili orpelli all'esistenza dei sudditi autentici dell'imperatore. Cos infine il sottotenente, nipote dell'eroe, sebbene afflitto da un crollo alcoolico e ancillare, persevera in un distacco regio-monarchico rivolto finanche verso il suo stesso corpo d'appartenenza, e continua a essere capace dintendere, sempre rigido come un manichino dufficiale, e (quasi) sempre lucido e forte fino allepilogo del ferimento e della morte - orgoglioso del suo essere ufficiale di quel Grande Vecchio, al quale suo nonno eroicamente ha concesso di essere, a distanza di molti decenni, ancora assiso al trono. Si diceva che la Morte a correre e ricorrere - come nei veri capolavori - dentro al cuore del romanzo. Ed infatti essa non tanto quella, al cospetto della quale il funzionario von Trotta in marsina rimane secco come una statua di sale oppure, senza nulla dire, muore a sua volta finalmente, subito dopo il figlio, al cominciare della Grande Guerra; piuttosto quella che ricorre e insiste, e seduce e persiste, in controtempo: quella del dilazionato crollo, anche se oramai imminente, dellassetto imperiale e dellimperatore stesso. Tutto, invero, ridotto ad assembramento che si disfa, in parallelo con l'ultimo dei Trotta dis-perso tra un'orgiastica mantenuta viennese e il giuoco d'azzardo e l'acquavite; ma ci che conta solo ci che, in fondo, stato - cos perdendosi, nella bruma dell'esserci, finanche i dimostranti feritori e il mortifero abbrivio del disastroso conflitto mondiale. E' insomma, quella del tenente Trotta junior, un fallimento tanto rifiutato quanto privo di possibilit di scampo. Da una parte esso temuto e percepito come il crollo di unepopea militare - uno stile di vita simile solo a se stesso; dallaltra parte, lo stesso sentimento del fallire e del crollare una discesa agli inferi vissuta nella sua pienezza, senza possibilit di contrappeso alcuno nella natura storica delle cose. Romanzo-capolavoro di un Narattore d'alta classe. la Marcia di Radetsky si fa ancor oggi leggere come un'esaltante marcia funebre, la quale non a caso sulle note di Chopin sottentra ai timpani straussiani, sul finire esisiziale - come tutto in Roth - del racconto-epopea. E' un romanzo cosmico, questo, e intimo al contempo: non soltanto una delle pi alte espressioni della letteratura sul mito degli Asburgo, ma anche un pallido e stupefatto anti-prussianesimo giudeo, il quale gi, del lubrico e bieco nazismo delle bestie pi biecamente esaltate, percepisce gli orridi clangori. les mots
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