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Recensione Ariel Dorfman

Ariel Dorfman

Memorie del deserto - L'estratto

Parte prima: le origini

Dal capitolo 1, Orme nel Sud

Mercoledì 8 maggio 2002. Valdivia/Puerto Montt

Mi trovo qui, con una scatola in mano, in uno stanzino senza finestre nascosto discretamente tra le aule e gli uffici del campus dell’Universidad Austral di Valdivia. Una scatola che maneggio con cautela, perché al suo interno è conservata la più vecchia impronta umana delle Americhe. Dentro questa scatola c’è una traccia lasciata da un bambino che ha calpestato questa terra dodicimilacinquecento anni fa. O, forse, tredicimila. Non c’è dato saperlo. Ciò che invece è stato verificato scientificamente è che in un certo momento, molti millenni fa, in un luogo oggi chiamato Monte Verde – un terreno acquitrinoso a circa centottanta chilometri dal punto in cui sono ora – un piccolo piede mortale si era posato con sicurezza nel fango e nella cenere che circondavano il focolare dove la sua famiglia era intenta a preparare la cena. Non sappiamo se si trattava di un piede maschile o femminile. Se potessi aprire quest’anonima scatola di cartone – chiusa ermeticamente con un triplo giro di nastro adesivo nero, e avvolta in carta da imballaggio marrone – potrei vedere, sotto la polverosa lampadina fluorescente, ciò che in spagnolo si chiama la huella, potrei vedere cioè l’impronta chiara di cinque dita dei piedi, e la sagoma di quello che doveva essere un sottile sandalo o calzatura, con anche il segno del tallone. Un’impronta qualunque, lasciata quando un piede qualunque, tra i miliardi che hanno calpestato questo pianeta, aveva premuto brevemente l’argilla, si era risollevato ed era sparito. Altre due tracce, che potrebbero anch’esse appartenere a un piede umano, furono ritrovate un po’ più a monte, nello stesso luogo, ma la huella è l’unica a essere stata identificata con certezza. Un’ulteriore, formidabile testimonianza che va ad aggiungersi alle migliaia di altri reperti ritrovati nella regione di Monte Verde, a riprova che l’uomo, già in tempi così remoti, aveva creato degli insediamenti estremamente sofisticati in America Latina.
A dire il vero, non pensavo che la huella fosse conservata in un ambiente così modesto, custodita in questa semplice scatola, tra dozzine di altre simili, contenenti manufatti e utensili ricavati dal legno o intagliati in zanne di mastodonti, corde e residui di tessuti ed erbe, e ogni sorta di reperti risalenti al Pleistocene, tutti stipati in un vecchio armadietto appoggiato alla squallida parete di cartongesso verde pisello. Abituato ai faretti luminosi e all’atmosfera ovattata dei musei americani, mi aspettavo chiusure di sicurezza e sentinelle, procedure burocratiche e sistemi d’allarme. Quando avevo scritto per chiedere informazioni sulla possibilità di essere ammesso alla presenza di questo tesoro antropologico, Mario Pino Quivira, il geologo che mi fa da anfitrione e che sorride per il pacchetto che tengo fra le mani e forse anche per la mia aria un po’ impacciata, mi aveva risposto che “la huella está bajo mil candados y llaves”, cioè che l’impronta era protetta da migliaia di chiavi e serrature. Ma c’era solo una chiave a chiudere questa sorta di deposito, ed era appesa a un gancio in un minuscolo ripostiglio all’entrata di questo modesto edificio a un piano che ospita l’Istituto geoscientifico dell’università. Sia i professori sia gli studenti – e chissà quant’altra gente – potevano entrare e uscire liberamente dallo stanzino, e gettare uno sguardo furtivo all’altro reperto conservato nella stessa stanza, un sismografo russo a forma di gru alto tre metri, risalente al 1908, l’ultima apparecchiatura del genere ancora funzionante esistente al mondo.
Sembra una strana coincidenza che il più antico segno lasciato dall’uomo in America Latina debba essere sorvegliato, a mo’ di cerbero, da quest’enorme macchina destinata a misurare i movimenti della crosta terrestre, perché quell’impronta rappresenta il terremoto archeologico scatenato dalla scoperta, avvenuta circa diciassette anni fa, dei reperti di Monte Verde, conservati ora in questo anonimo stanzino, che ha cambiato per sempre il nostro modo di considerare la vita dei primi abitanti del continente americano. […]
La teoria che per cinquant’anni aveva dominato il modo d’interpretare la preistoria americana trovò la sua smentita nel più impensabile dei luoghi, un pascolo attraversato dal torrente Chinchihuapi, a una trentina di chilometri a ovest di Puerto Montt, un centro di pescatori che ho visitato proprio ieri. Avevo affrontato un volo di oltre mille chilometri a sud di Santiago, ansioso di visitare di nuovo quel Puerto Montt che avevo spesso usato come base di partenza per le mie esplorazioni nelle foreste del Sur Chileno, il mio habitat preferito, con fiumi impetuosi, verdi come lo smeraldo, e vulcani fumanti, e il mare, il mare più selvaggio che si possa immaginare, quando la costa pacifica del continente sudamericano si disintegra in un burrascoso groviglio di arcipelaghi, isolotti e ghiacciai, a mano a mano che ci si avvicina allo Stretto di Magellano. Ma una volta atterrato, non c’era stato tempo per questi posti, poiché la mia meta era Monte Verde, e dovevo affrettarmi, prima che un acquazzone annunciato rendesse ancora più difficile raggiungere questa località fuori mano. Anche se una pioggia torrenziale non sarebbe stata un’esperienza insolita da queste parti: la regione intorno a Puerto Montt è infatti nota per essere una delle zone più umide e inzuppate d’acqua del Cile. […]

© 2005. Feltrinelli

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