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Recensione Enrique Vila-Matas Il mal di Montano - L'estratto
dal Capitolo 1
Sul finire del ventesimo secolo il giovane Montano, che aveva appena pubblicato il suo pericoloso romanzo sull’enigmatico caso degli scrittori che rinunciano a scrivere, rimase intrappolato nelle maglie della sua stessa finzione e, malgrado la sua compulsiva propensione alla scrittura, finì per essere uno scrittore totalmente bloccato, paralizzato, agrafo tragico.
Sul finire del ventesimo secolo – oggi 15 novembre 2000, per l’esattezza –, gli ho fatto visita nella sua casa di Nantes e, proprio come mi aspettavo, l’ho trovato così triste e arido che ben gli si sarebbero potuti adattare certi versi di Pu√kin, che dicono: “vive errando / nella penombra dei boschi / con il romanzo pericoloso”.
Il lato positivo della faccenda è che a mio figlio – perché Montano è mio figlio – errare nella penombra dei boschi ha fatto riacquistare una certa passione per la lettura, e da questo ho tratto beneficio io stesso, che, non molto tempo fa e su suo consiglio, ho letto Prosa dalla frontiera personale, il romanzo appena pubblicato da Julio Arward, quello strano scrittore di cui non mi ero mai fidato troppo considerando che giocava semplicemente a essere il doppio del romanziere Justo Navarro.
Oggi, fra le altre cose, ho ringraziato mio figlio per avermi consigliato il libro del doppio di Justo Navarro, non poi così doppio da quando ha scritto quel romanzo. Si tratta di un buon libro e, leggendolo, mi sono ricordato a più riprese di una cosa che un giorno avevo sentito dire a Julio Arward alla radio: “Una volta, un’amica mi ha raccontato che ciascuno di noi ha un doppio che sta in un altro posto, e vive la propria vita con un volto identico al nostro”. E mi sono anche ricordato, leggendo quel libro, di una cosa che un giorno avevo sentito dire a Justo Navarro e che qualche volta ho fatto passare per mia: “Ci sono coincidenze e casualità per le quali muori dalle risate e ci sono coincidenze e casualità per le quali muori”.
Il narratore di Prosa dalla frontiera personale è uno straniero della vita e allo stesso tempo un eroe che sembra appena uscito da un racconto cinese, ha un misterioso fratello gemello, o meglio, un cugino primo che è il suo ritratto vivente e per giunta si chiama come lui: Cosme Badía.
Il tema del doppio – e anche quello del doppio del doppio e così via all’infinito in un interminabile gioco di specchi – è il centro del labirinto del romanzo di Julio Arward, un romanzo che – sto già scrivendo da critico letterario quale sono – è un’autobiografia fittizia nella quale l’autore si fa passare per Cosme Badía e, ricordando con una memoria estranea alla sua, si inventa il mondo dei due cugini primi e finge di ricordare quel mondo avendo presenti in ogni momento queste parole di Faulkner: “Un romanzo è la vita segreta di uno scrittore, l’oscuro fratello gemello di un uomo”.
Forse la letteratura è questo: inventare un’altra vita che potrebbe benissimo essere la nostra, inventare un doppio. Ricardo Piglia dice che ricordare con una memoria estranea è una variante del doppio, ma è anche una metafora perfetta dell’esperienza letteraria. Ho appena finito di citare Piglia e constato che vivo circondato da citazioni di libri e autori. Sono un malato di letteratura. Se continuo così, finirà per inghiottirmi, come un pupazzo dentro a un mulinello, finché non mi smarrirò nelle sue lande sconfinate. La letteratura mi soffoca ogni giorno di più, giunto ai cinquant’anni mi angoscia pensare che il mio destino sia di finire trasformato in un dizionario ambulante di citazioni.
Il narratore di Prosa dalla frontiera personale sembra uscito da un quadro di Edward Hopper. Fin qui niente di strano, dal momento che Arward subisce il fascino di questo pittore nordamericano da quando nel 1982 comprò il mio primo libro – il primo dei cinque, tutti di critica letteraria, che ho pubblicato –, e lo comprò unicamente perché sulla copertina compariva Nighthawks di Edward Hopper, quel quadro sui bevitori notturni. All’epoca Arward non aveva visto un solo quadro di Hopper e comprò il libro per la copertina – allora non mi conosceva nemmeno –, che ritagliò con un paio di forbici da cucina e appese a una parete di casa sua. Questo me lo raccontò lui stesso alcuni anni fa, al nostro primo incontro. Saperlo non mi ha nemmeno offeso, dato che in fin dei conti ricordavo di aver ritagliato da un giornale un suo articolo, Gli stranieri della vita, e di averlo inchiodato a una parete del mio studio solo per ricordarmi che dovevo chiamare Justo Navarro e dirgli che c’era un tipo di nome Arward che lo copiava, soprattutto quando diceva, per esempio: “Il bevitore solitario di Nighthawks sembra stia ricordando lontane scorribande cinesi. La sua nuca, la schiena, le spalle reggono il fardello della fredda luce della memoria e degli anni”.
Prosa dalla frontiera personale, che rievoca le lontane scorribande cinesi di Cosme Badía, l’altro giorno mi ha ricordato di quando ho firmato un’intervista a Justo Navarro che in realtà aveva fatto lui a se stesso, così come nella pagina a fianco si poteva leggere un’intervista che mi ero fatto da solo ma che portava la firma di Justo Navarro. Le due interviste iniziavano con un’identica prima domanda, concordata in precedenza: “Lei si scambierebbe con me?”. “Subito” rispondevo io. “Subito no” rispondeva Justo Navarro. “In un altro momento volentieri; ma non subito. Ora lei fa le domande e io rispondo; se mi scambiassi con lei in questo momento, dovrei mettermi a fare le domande.” […]
© Feltrinelli.
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