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Recensione Sebastiano Vassalli Un infinito numero - Le prime pagine.
le prime pagine
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Era una bella giornata d'autunno. Oltre il muro del giardino e di là dagli alberi, si sentiva il rumore delle grandi macchine trebbiatrici che lavoravano nei campi alla raccolta del riso. Si sentivano e non si vedevano, perché passavano altissimi sopra le nostre teste, gli aeroplani in partenza o in arrivo dall'aeroporto di Milano Malpensa; e c'erano anche, in sottofondo, le voci della natura. (Lo stormire delle fronde, il cinguettio degli uccelli non sono ancora scomparsi del tutto da questa parte del mondo che è la pianura del Po, ma non sempre è possibile ascoltarli, in una realtà ormai interamente dominata dai rumori meccanici).
"Il tempo, - disse Timodemo, - è pieno delle nostre storie e non sa cosa farsene. E anche noi, che siamo i personaggi di quelle storie, finiamo poi sempre per soffermarci su un dettaglio, e perdiamo di vista l'insieme..."
Si sedette su una panchina in fondo al viale, e alzò la toga per non calpestarla. Soltanto allora feci caso a come era vestito, e anche a un cerchio d'oro che portava al polso della mano sinistra e che rappresentava l'urobòros, il serpente che inghiotte sé stesso. Una delle immagini più antiche, e più universalmente note, del tempo.
L'uomo che mi stava davanti dimostrava una cinquantina d'anni. Aveva la barba grigia, era un po' calvo e parlava un latino per me abbastanza comprensibile, grazie ai ricordi di liceo e d'università. Mi indicò un gruppo di miei personaggi, uomini e donne, che passeggiavano tra gli alberi e parlavano tra di loro in modo piuttosto animato. "Osservali con attenzione, - mi disse. - A vederli da qui, sembra che si debbano scambiare chissà quali notizie. Ma se ti avvicini e li ascolti, ti accorgi che ognuno di loro sta soltanto recitando una parte: la sua parte, e continua a ripeterla..."
Ricordo di aver provato un moto di fastidio, per quello sconosciuto che si permetteva di criticare i miei personaggi. Chi credeva di essere? Non era anche lui un personaggio come gli altri, venuto nel mio giardino per lo stesso motivo per cui ci venivano tutti?
"Se devi raccontare una storia, - gli dissi, - raccontala. Io ti ascolto. Ma, per favore, risparmiami questo genere di considerazioni..."
Lo guardai e vidi che sorrideva. Chissà cosa aveva voluto farmi intendere, con quello strano preambolo! "Ci sono storie, - mi rispose dopo un breve silenzio, - che rimangono sospese fuori del tempo perché i loro personaggi ne conoscono soltanto una piccola parte, e perché nessuno riesce a vederle per intero. Sembra incredibile ma è così. Anche il mio amico Virgilio, nei suoi ultimi giorni e mesi di vita, si era reso conto di essere passato vicino a una di quelle storie, e di non avere saputo riconoscerla..."
L'uomo seduto sulla panchina continuò a parlare finché il sole, che allora era ancora alto sopra le nostre teste, scivolò pian piano dietro alle montagne che chiudono a occidente questa pianura, e finché il freddo e l'umidità della notte incominciarono a insinuarsi dentro alle mie ossa di vivo. Ed ecco la trascrizione, fedele per quanto mi è stato possibile, di quel suo lungo monologo.
I.
Timodemo
Mi chiamo Timodemo e sono nato in Grecia, in una piccola città di nome Nauplia, a poche miglia da Argo. Nauplia è il nome di un borgo in riva al mare; e io, quando vado indietro con la memoria fino ai giorni della mia infanzia, rivedo una strada che scende verso una spiaggia piena di scogli, e un grappolo di case imbiancate a calce, con le porte e le finestre verniciate nei colori dell'arcobaleno: il rosso, il giallo, l'azzurro, il viola, il verde smeraldo... Anche le barche dei pescatori che ci sono giù al porto sono dipinte con gli stessi colori e, in più, mostrano sulle fiancate immagini di draghi, di arpie, di divinità infernali o celesti. In quel posto c'è sempre il sole, e non piove mai. (Io, almeno, non ricordo di aver visto piovere). Ci sono molti bambini e molti cani che gironzolano da una casa all'altra e poi ritornano sul molo del porto, i bambini per giocare tra le reti e le barche tirate in secco, e i cani per disputarsi qualche carogna di gabbiano o per stendersi al sole. Ogni tanto si sentono delle grida e si vedono delle donne che corrono verso gli scogli, dove altre donne scarmigliate indicano un punto nell'acqua: "È lì! No, è lì!" Queste cose succedono quando cade in mare un bambino; ma, in genere, nel momento in cui le donne gridano non c'è più niente da fare, perché il bambino, dopo aver annaspato per un tempo ragionevole, è andato sott'acqua. I bambini, a Nauplia, sono poco più numerosi e poco meno randagi dei cani. L'unica differenza fra le due tribù, quella dei bambini e quella dei cani, è data dal fatto che i cani, di notte, dormono dove capita, mentre i bambini dormono dentro alle case. Quasi tutti (bambini e cani) hanno dei genitori. Io ho una madre, Pasitea, con due poppe grandi ciascuna come la mia testa, e i capelli neri tenuti sciolti che le arrivano fino in vita. Attorno a mia madre ci sono uomini sempre diversi che le portano roba da mangiare o vestiti, si sdraiano sul suo letto e qualche volta prendono in braccio anche me. (Fine del ricordo). Soltanto dopo qualche anno che sono andato via da Nauplia ho poi capito cosa faceva mia madre per vivere, e perché io non avevo un padre. Pasitea era una prostituta e gli uomini che venivano nella nostra casa erano marinai. Nauplia è il porto di Argo, una città importante e con molti traffici; e chissà, forse quelle case sopra il molo erano tutte abitate da prostitute. Forse i bambini con cui io giocavo erano i loro figli. Anche se non posso esserne sicuro, credo che l'ipotesi che ho appena fatto sia accettabile e, anzi, verosimile.
© 1999, Giulio Einaudi editore
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