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Recensione Anne Tyler L'amore paziente - Le prime pagine.
le prime pagine
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1
Autunno 1960: Amanda
Mio fratello Jeremy era uno scapolo di trentott'anni che non era mai andato via di casa. Da tempo ormai avevamo rinunciato ad aspettarci molto da lui, ma era l'ultimo uomo della nostra famiglia e pensavamo che al momento del bisogno si sarebbe rimboccato le maniche e assunta qualche responsabilità. Invece no. Telefonò a me e mia sorella a Richmond, dove viviamo insieme in un piccolo appartamento. Se la memoria non mi tradisce, quella fu la prima volta della sua vita che ci chiamò; incredibile, no? Di solito telefonavamo alla mamma la domenica sera, quando costava meno, e lei ci passava Jeremy per un saluto. E in effetti lui non ci diceva molto più che: « Ciao » e « Bene, grazie » e poi, dopo una lunga pausa, concludeva con: « Be', allora ciao». Così quella sera, quando sentii la sua voce, per un attimo faticai a riconoscerlo. « Amanda? » disse, e io: « Sì? Chi parla? »
« Volevo dirti di mami » rispose Jeremy.
Lui la chiamava ancora così: mami. Laura e io da adulte avevamo preso un certo distacco.
« C'è qualcosa che non va, Jeremy? » chiesi.
« Mami è morta. »
E io dissi: « Oh, santo cielo! »
Poi Laura e io dovemmo organizzare tutto con una serie di telefonate interurbane: chiamare il medico per il certificato di morte, rintracciare il prete, aiutare Jeremy a scegliere un impresa di pompe funebri. (Scoprimmo che non aveva mai imparato a usare le pagine gialle.) Il giorno dopo ci toccò prendere un treno per Baltimora e trovare un taxi che ci portasse dalla stazione a casa. A Jeremy non passò nemmeno per l'anticamera del cervello che in un momento come quello ci potesse far piacere che venisse a prenderci.
Del resto, con che mezzo sarebbe venuto a prenderci? Non sapeva guidare. Ma certi uomini sanno gestire una situazione anche arrivando in autobus, tornando a casa con un altro autobus, assicurandosi che le sue sorelle abbiano posto a sedere e badando alle loro valige. Jeremy no. Laura e io arrivammo alla stazione un freddo e piovoso mezzogiorno di novembre, senza trovare nessuno che conoscessimo, non un facchino, nemmeno un taxi in attesa. Ci toccò sederci sulle nostre valige tremando, con i cappelli coperti dai cappucci di nylon per la pioggia. « Oh, Amanda» disse Laura, « mi sa che il tuo raffreddore si trasformerà in una bella bronchite. » Perché ero anche ammalata da due settimane, e mi ero trascinata a scuola a stento, non fidandomi dei supplenti. Non avrei nemmeno dovuto uscire. E ora Laura aveva tutta l'aria di essere sul punto di ammalarsi anche lei. Continuava a piegare e ripiegare un fazzoletto a fiori, ci soffiava dentro e poi si asciugava la punta del naso. Si era messa il completo bordeaux, che in teoria avrebbe dovuto farla sembrare un po' più magra, ma solo in teoria. I bottoni del suo cappotto si chiudevano a stento. Io avevo il cappotto buono di lana nero, con i bottoni di strass e il colletto di scoiattolo e il cappello dello stesso grigio dei miei capelli. Ma avrei potuto risparmiarmelo. Tanto il cappuccio di nylon e le galosce rovinavano l'effetto. Possibile che Jeremy non fosse nemmeno in grado di chiamare un taxi e mandarlo alla stazione ad aspettarci?
Quando finalmente ne trovammo uno, sulle prime non riuscimmo a metterci d'accordo su dove farci portare. Laura voleva che andassimo dritto all'impresa di pompe funebri. Era sempre stata più affezionata di me alla mamma e si era commossa molto di più alla notizia della sua morte; era rimasta alzata gran parte della notte prima a piangere e lamentarsi. Be', certo anche per me era stato uno shock, ma io sono la più vecchia — ho quarantasei anni, anche se dicono che non li dimostro — e sono sempre stata la più concreta. Le dissi che dovevamo prima passare a lasciare le valige. E che certamente Jeremy era già all'impresa a predisporre tutto. Almeno quello era in grado di farlo, no? Laura disse: « Mah, non saprei, Amanda ». Così alla fine le promisi che saremmo andate alle pompe funebri, ma solo dopo essere passate da casa a lasciare le valige e capire dove fosse Jeremy. Il tassista chiese: « Possiamo andare, adesso? » Un tipo insolente. Ma almeno nel traffico stette zitto. Detesto quei tassisti che continuano a parlare in quel loro modo duro e si sentono autorizzati a dire come la pensano sulla politica e sui costo della vita e sulla criminalità e su altri argomenti di cui non mi importa nulla.
© 2003 Ugo Guanda Editore
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