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Recensione Andrés Trapiello

Andrés Trapiello

Gli amici del delitto perfetto

le prime pagine
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Prima parte

Delley non aveva mai pensato che un campanello potesse grugnire come un armadillo.
Sgrung... sgrunnng... sgruuunggg.
Si era addormentato sul letto. Aveva ancora l'impermea-bile e le scarpe addosso. Sussultò. Delle scarpe vecchie, color sfiga, tutte infangate. Portò la mano al revolver. Dieci ore in quella topaia. Chiunque fosse alla porta si fermò per qualche istante, ma poi tornò alla carica. Sembrava una musica che alternava squilli brevi e squilli lunghi. Aprì gli occhi. Ci sentì come una fitta dentro, ma non seppe defi-nirla meglio. A volte gli occhi fanno male. Volevano gioca-re con lui al gatto con il topo. Il campanello era il gatto e lui il topo. Si guardò attorno con uno stupore risentito, senza riuscire a ricordare dove si trovava. Gli bruciavano le palpebre. Diede una rapida occhiata alla finestra. S'era fat-to notte. Dal neon del negozio di elettrodomestici del vec-chio Valentini entrava nella stanza un brusio triste e mono-tono. Suonarono ancora. Rosso e nero, rosso e verde, un manichino sexy con un seno bruciacchiato che brandiva un phon che le scompigliava i capelli al vento e funzionava a intermittenza. Pensò che tanti "che" nella stessa frase fosse-ro eccessivi, ma per quello che lo pagavano i pronomi rela-tivi potevano anche andare tutti al diavolo. Guardò con particolare attenzione i capelli della ragazza del phon, an-che quelli bruciacchiati. Un nuovo squillo gli trafisse il cer-vello come se gli avessero infilato un ferro da calza nel tim-pano. Sentì la scarica anche nello stomaco vuoto. Chi scri-ve romanzi polizieschi da quattro soldi conosce questo frul-lio nella pancia come l'“araldo della morte”. Si sedette sul letto senza fare rumore, muovendosi istintivamente come il felino che intuisce dov'è il pericolo. Adesso da topo era di-ventato gatto.
Quando gli scampanellii smisero di flagellarlo, Delley sentì dall'altro lato della porta il respiro dei segugi. Forse l'ordine che avevano ricevuto era molto più semplice: lo avrebbero riempito di piombo lasciandolo lì, con il riflesso di quella ragazza sexy addosso. Non erano neanche venuti in divisa, ci scommetteva. Sì, sarebbe finito lungo disteso sul tappeto, a fare coppia con il manichino voltaico. Delley dedusse dal rumore che gli uomini dovevano essere tre o quattro. Tornarono alla carica.
Toc... toc... toc...

Stavolta furono colpi secchi, nervosi, dati con il calcio della pistola. Delley era stanco, al capolinea, non ne poteva più di vedere morti.
La stanza puzzava di tabacco e whisky di malto, soprat-tutto di whisky. La mattina, posando il giornale su cui aveva letto la notizia della morte di Dora, aveva rovesciato senza volere il bicchiere sul tappeto. Per cercare di arrestarne la ca-duta aveva rovesciato anche la bottiglia che era accanto al letto, sul comodino; aveva tentato di arginare il disastro con un movimento goffo ma la bottiglia si era rotta. Il pavimen-to si era riempito di schegge taglienti e nel giro di due se-condi quel posto puzzava come una distilleria. I vetri rotti erano ancora per terra e parte del whisky era evaporato. Era successo intorno alle dieci. Poi aveva chiesto al bar Lowren che gli portassero in camera qualcosa da mangiare, un'altra bottiglia di whisky, sigarette e un caffè forte. Non aveva la-sciato entrare il cameriere. Non voleva che vedesse i vetri rotti e neanche la pozza di whisky. Ma Joe, il ragazzo che la-vorava al Lowren, aveva storto il naso. Sulla bocca gli era ap-parso un sorriso malizioso. Era un bravo ragazzo.
«Signor Delley, non so cosa stia facendo, ma lì dentro c'è un tale tanfo di whisky che se accende un cerino farà salta-re per aria tutto il palazzo. Glielo dico perché so dove si ri-fornisce di alcolici il signor Molloy».

© 2004 Neri Pozza Editori

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