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Recensione Ingo Schulze

Ingo Schulze

33 Attimi di felicità

le prime pagine
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VOGLIO spiegarle bene: un anno fa realizzai un desiderio che accarezzavo da tempo e me ne andai in treno a Pietroburgo. Dividevo lo scompartimento con una russa fresca di parrucchiere, il marito di costei e un tedesco di nome Hofmann. I russi ci avevano preso per una coppia e Hofmann, che faceva da interprete fra le loro domande e le mie risposte, glielo lasciò credere. Non so cos'altro abbia ancora raccontato. Ridevano in continuazione e la donna mi dava dei buffetti sulla guancia.
L'aria restava soffocante anche di notte, le camicie dei conduttori erano macchiate di sudore, i finestrini appannati, sporchi, impossibile aprirli da dentro - in teoria doveva esserci l'aria condizionata - e se non di disinfettante, c'era puzza di cesso e sigarette. Lamiere d'acciaio, gettate fra un vagone e l'altro come ponti levatoi, sbatacchiavano - tarrara-tarrara-bshing -, e a ogni frenata il fragore si trasformava in un tarrara-bshing-bshong, tarrara-bshing-bshong -, finché i respingenti cozzavano: colpi imprevedibili e incessanti che mi impedirono di dormire e anche il giorno dopo, benché il caldo si fosse attenuato, rimasi sveglia. Quando non parlava con i russi Hofmann, la testa affondata nel cuscino, guardava fuori, dove fra zone paludose e boschi selvaggi ogni tanto si vedevano delle casette, azzurre e verdi, conficcate di traverso nel terreno, mentre le cataste di legna spiccavano chiare dietro campi riarsi e steccati verniciati. Delle bandierine gialle dei guardabarriere spesso era rimasta solo l'asta di legno per il saluto militare.
La seconda sera, già in Lituania, a un tratto Hofmann mi invitò nel vagone ristorante. Seduto di fronte a me, con i capelli biondo scuri, gli occhi quasi grigi e una cicatrice sotto il mento, aveva un'aria sicura. Ordinò senza guardare il menu e pulì le posate sulle tendine rosse. Ma alla domanda come mai un uomo d'affari tedesco, quale dava a intendere di essere, viaggiasse in treno, per un istante perse tutta la sua disinvoltura. Fece un sorriso stentato e mi fissò. Invece di rispondere si buttò a parlarmi del suo lavoro per un giornale. Ma al di là della sua passione per il karaoke lui era soprattutto, così disse, un amante della letteratura.
Quanto più ci allontanavamo dalla mia domanda, quanto più sciolto si faceva il suo racconto e tanto più fantastiche e inverosimili mi apparivano le storie. Mi sommerse sotto una valanga di spiegazioni e consigli d'ogni genere su quello che proprio non potevo fare a meno di leggere, e sospirando profondamente si felicitava per la mia ignoranza. "Quante cose hai ancora davanti!" continuava a ripetere. Bevemmo e mangiammo a sazietà, il costo era ridicolo, e tutto andò come doveva andare - tarrara-tarrara-bshing...
Mi svegliai con un mal di testa d'inferno. C'era un sole abbagliante, il treno era fermo in una stazione chiamata Pskov. La cuccetta di Hofmann era disfatta, il materasso arrotolato. Nessuno voleva o sapeva dire dove fosse finito. Scomparso, dissolto come nebbia al sole. Ero in uno stato pietoso. Né tantomeno migliorò quando dietro la mia borsa scoprii questa cartella che adesso le sta davanti. Non sapevo come ci fosse arrivata né cosa dovessi farmene. All'inizio volevo darla al conduttore, perché non sai mai in quali pasticci vai a cacciarti. Ma poi cominciai a leggere.
Fra le tante cose che ci eravamo raccontati, Hofmann aveva accennato anche a certi suoi appunti quotidiani che da Pietroburgo aveva spedito in Germania. Mentre scriveva - a chi, non lo disse - aveva ceduto sempre più all'impulso di dare spazio all'invenzione anziché all'indagine. Per lui, sosteneva, un episodio inventato non era infatti meno autentico di un incidente stradale. Allo stesso modo deve avere incoraggiato colleghi e conoscenti a riferirgli storie, impresa tutt'altro che difficile per un occidentale in Russia.


© 2001, Arnoldo Mondadori editore

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