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Recensione Tiziano Scarpa Cosa voglio da te
le prime pagine
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Abitavo a due passi da un negozio di cravatte
Abitavo a due passi da un negozio di cravatte, in una via secondaria di una città del nord. La via era dedicata allo scienziato sacerdote Lazzaro Spallanzani, che il settembre 1788 sali sul monte Etna fino ai bordi del cratere, dove meditò a lungo dinanzi al ribollire della lava.
Nel negozio di via Spallanzani lavorava una commessa. Aveva i capelli biondi come un tizzone di braci. Di solito li raccoglieva in una treccia, ma almeno una volta alla settimana li teneva sciolti sulla schiena. Le arrivavano sotto la cintura.
Passavo ogni giorno davanti al negozio di cravatte, ma non osavo fermarmi davanti alla vetrina. Sbirciavo i capelli della commessa, rapinosamente, senza smettere di camminare. Le ricadevano dietro le spalle accarezzando morbidi maglioncini. Mi guardavo intorno, stupito dell'assenza di alveari. Come mai dentro quel negozio non volava nemmeno un'ape? Com'era possibile che gli sciami golosi di miele non dimorassero accanto a quella capigliatura?
Ogni giorno passavo e ripassavo davanti al negozio di cravatte. Non avevo il coraggio di soffermarmi davanti alla vetrina. Adocchiavo la commessa tutta sola, intenta a leggere un libro, senza dubbio un romanzo d'amore. Ogni tanto, nel negozio s'intravedeva un cliente. Si provava decine di cravatte per strozzarsi davanti a lei.
Rincasavo. La immaginavo nuda, diritta, con i capelli di miele che le colavano lungo la schiena. Ai suoi piedi, decine di signori in camicia e mutande la imploravano cantando inni gutturali. Si annodavano una cravatta di magma intorno al collo, la stringevano a strattoni.
— Non è la mia misura, non è la mia misura! — rantolavano i signori in mutande, strabuzzando gli occhi. Si strangolavano.
Immaginavo la commessa nuda, in piedi, avvolta nella sua cascata di capelli. Con le dita formavo un cappio intorno al mio sesso, lo tenevo stretto nella mano. I signori in mutande vacillavano sulle gambe pelose, stramazzavano al suolo tutti quanti insieme. La commessa nuda mi porgeva la sua capigliatura e la annodava gentilmente intorno al mio collo, attirandomi a sé. In quel momento mi sentivo pungere da uno spasmo acuto. Dal mio sesso sbolliva un fiocco liquoroso.
Scrissi una poesia dedicata alla commessa. La intitolai: Ai tuoi capelli. La rilessi. Era una poesia commovente. Immaginai la mia commessa che la leggeva, nuda, in piedi. Intorno a lei, i cadaveri dei signori pelosi si rodevano dall'invidia. Mi masturbai. Ne scrissi un'altra. La intitolai: Ai tuoi capelli. Ne scrissi un'altra ancora. La intitolai: Ai tuoi capelli. Si intitolavano tutte: Ai tuoi capelli. Scrivevo e mi masturbavo, mi masturbavo e scrivevo. Mungevo l'amore da me stesso. Fantasticavo.
Scelsi la poesia più ispirata. Comprai un foglio di carta di canapa cruda. Lo piegai e lo ripiegai, con il tagliacarte ne ricavai decine di biglietti della grandezza di una banconota. Intinsi il pennino nell'inchiostro dorato, distillato dalla fabbrica di pigmenti Windsor & Newton. Copiai e ricopiai la mia poesia. Scelsi la copia con la calligrafia che dava l'impressione di essere la più spontanea.
Attesi il giorno in cui la commessa indossava i suoi capelli sciolti. Mi feci coraggio. Per la prima volta, entrai nel negozio.
La commessa mi guardò negli occhi. Mi sorrise.
Non riuscivo a parlare. Strinsi i denti. Mi feci capire a gesti. Indicai la cravatta più costosa, la cravatta di seta viola. La comprai senza provarla. Lasciai scivolare sotto le banconote il biglietto di canapa cruda istoriato dai miei versi d'oro.
Corsi fuori dal negozio. Boccheggiavo.
Mi barricai in casa. Sprangai la porta e rinserrai le finestre.
Per una settimana non ebbi il coraggio di uscire dalla mia stamberga. Non mangiai pressoché nulla. Non avevo fame. Non abusai sessualmente di me stesso, né del fantasma della commessa. Bevvi molto vino.
L'ottavo giorno telefonai al fido Scarpa, l'amico che mi dava qualche soldo in cambio delle autoradio e dei fanali di bici che riuscivo a rimediare per le strade. Gli illustrai la situazione. Lo mandai in avanscoperta.
Attesi accanto al telefono. Sospiravo.
Mi richiamò quella sera stessa. Era passato davanti al negozio, aveva investigato attraverso la vetrina.
- La tua bella biondona — mi riferì il fido Scarpa - non c'è più. Al suo posto lavora un tipo con i capelli rasati.
Mi sentii mancare.
Per tutta la notte restai come stordito. Feci incubi da sveglio, con gli occhi sbarrati nel buio.
La mattina dopo decisi di porre fine alla mia clausura. Barcollando, mi feci strada verso la luce. Aprii la porta dell'appartamento che dava sul pianerottolo, all'ottavo piano. Affrontai il capogiro delle scale, il sozzo travaglio dell'atrio.
Un lembo di chiarore abbacinante, poggiato sulla cassetta della posta accanto al portone, mi ferì gli occhi. Era un pacchetto di carta bianca. C'era scritto: "Al compratore di cravatta viola".
Lo aprii.
© 2003 Giulio Einaudi Editore
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