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Recensione Eugenio Scalfari

Eugenio Scalfari

Il labirinto

le prime pagine
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IL SOGNO

La stanza dove mi trovavo era un luogo a me ignoto e tuttavia familiare, come se la memoria ne avesse conservato non già il ricordo di un'esperienza sensibile ma una reminiscenza connessa ad un'altra esistenza, ad altri soggetti e luoghi e tempi non paragonabili a me e alla mia vita, ma ad un me collocato in un altrove spaesato eppure esistente o esistito.
Il letto su cui giacevo era un grande letto di ottone che non avevo mai visto prima di allora ma che però era stato sicuramente mio e così il resto di quella stanza, la finestra che si apriva su una striscia di mare azzurro e l'altra sulla parete di fondo che guardava verso le colline alberate di ulivi; l'armadio di noce dove erano riposte le telerie, le lenzuola, le tovaglie, i corredi delle spose e il sentore antico della lavanda; il cassettone dove ogni anno a settembre si stipavano i fichi seccati al sole che duravano fino alla pasqua di aprile, odorosi di alloro e di cannella.
Il mio stare in quel luogo aveva il senso di un rendiconto, di questo ero sicuro, d'esser lì per confrontarmi con qualcuno o qualcosa, per passare un esame e chiudere una partita. Perciò ero agitato da un'ansia sottile, percettibile appena perché non si appuntava su un evento preciso ma vago e indeterminato: l'appuntamento c'era e il luogo dove mi trovavo ne sarebbe stata la cornice, ma non sapevo con chi né il quando né il come.
Poco dopo camminavo sul bordo d'un lago verde chiaro appena mosso da una brezza leggera. La sabbia era bagnata e compatta, dinanzi a me vedevo tracce di piccoli piedi, d'un bambino o d'una donna, ma la spiaggia era deserta, ornata da ciuffi di canne.
A un certo punto la sabbia cominciò a cedere e i miei piedi ad affondare e più procedevo nel cammino più affondavo. Ad ogni passo mi districavo dalla sabbia ma quando di nuovo poggiavo il piede a terra trovavo un terreno sempre più cedevole. Ora la sabbia arrivava fino ai malleoli, ancora un poco e mi coprì i polpacci e poi le ginocchia. Tuttavia continuavo ad avanzare sempre più lentamente e con una fatica sempre maggiore.
Che facile simbolismo - pensai - per immaginare la morte; ma ora quel camminare affondando senza che vi fosse un appiglio per uscire dalla palude mi accorciava il respiro e un'angoscia oscura montava. Il lago alla mia sinistra era scomparso, la sabbia non era più sabbia ma terra fangosa. M'era arrivata all'inguine e io sprofondavo, sprofondavo...
"Ehi, compare - a un certo punto la sua voce ruppe il silenzio di quella geenna - vedo che stiamo morendo."
Lui parlava di rado ma quando lo faceva mi chiamava sempre in quel modo, "compare", con una degnazione ostentatamente bonaria che voleva marcare la sua superiorità. Ma aveva ragione: stavamo morendo.

* * * * *

Poi fu di nuovo in quella stanza, disteso su quel letto con la testiera d'ottone e tanti cuscini scomposti e gualciti. Sentii che la vita se ne andava dolcemente, con un leggero passo di danza, un flusso arreso di evanescenze, volti, dolori, fatica.
Ah, che opprimente fatica correndo su e giù per la vita, comandare e obbedire, amare e odiare, sedurre e abbandonare, giacere derelitti in angoli di solitudine, smarrirsi nella folla vociante delle stazioni, essere poveri e essere ricchi e alti e bassi.
Su e giù per la vita incalzato da quel perfetto detestabile meccanismo persecutorio cresciuto come un enorme tumore tra la fronte e la nuca, miliardi e miliardi di cellule perverse collegate tra loro ai miei danni per obbligarmi a ricordare, per costringermi a crescere, a decidere, a pensare.
Ho dato tutto me stesso a quel mirabile meccanismo, gli ho delegato il mio corpo e il mio destino, a lui mi sono affidato come il bambino si affida alla madre.
Che altro potevo fare? Mi aveva invaso. I suoi comandi arrivavano fin nelle fibre più remote e tutti gli organi del mio universo corporale gli avevano giurato devozione.
Che potevo fare se non amarlo appassionatamente, senza riserve né pentimenti né tentazioni?
Che potevo fare se io ero diventato lui e m'inorgoglivo di lui, cioè di me, della mia matura saggezza, della mia lucida ragione, della mia allegria e della mia tristezza così saggiamente amministrate?


© 1998, RCS Libri S.p.A.

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