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Recensione Iain Pears

Iain Pears

Il Caso Raffaello

le prime pagine
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1



POCO prima che le campane di Sant'Ignazio suonassero le sette del mattino, il generale Taddeo Bottardi si accinse a salire le solite scale costellate di opere d'arte, tutta refurtiva recuperata. Era arrivato nella piazza già da una decina di minuti, ma, rispettando una vecchia consuetudine, si era fermato nel bar di fronte all'ufficio a bere due espressi e mangiare un panino al prosciutto. Gli abituali frequentatori del locale l'avevano salutato come si conveniva a un regolare cliente dalle abitudini mattiniere: un amichevole "buongiorno", un cenno con il capo, ma nessun tentativo di scambiare quattro chiacchiere. Il primo contatto con il nuovo giorno è, a Roma come in qualsiasi altra metropoli, una faccenda privata che si sbriga meglio in un solitario silenzio.
Terminato quel piacevole rituale mattutino, il generale s'incamminò sull'acciottolato della piazza e affrontò le scale, cominciando a sbuffare e ansimare pesantemente ancor prima di aver terminato di salire la prima rampa. Non perché fosse sovrappreso, come si diceva spesso per rassicurarsi. Erano passati anni dall'ultima volta in cui era stato costretto a far allargare la divisa. Un po' corpulento, tutt'al più. D'aspetto imponente, così preferiva definirsi. Avrebbe dovuto rinunciare alle sigarette, al caffè, al cibo, e fare invece un po' di esercizio fisico. Ma in tal caso quali piaceri gli avrebbe riservato l'esistenza? Inoltre, si stava avvicinando alla sessantina e ormai era troppo tardi per cominciare a pretendere una buona forma fisica. Lo sforzo avrebbe potuto ucciderlo.
Si fermò un attimo, in parte per osservare un nuovo dipinto appeso al muro, ma soprattutto per concedersi una furtiva opportunità di riprendere fiato. Doveva trattarsi, a occhio, di un piccolo quadro di Artemisia Gentileschi. Molto bello. Era un vero peccato che dovesse essere restituito ai legittimi proprietari non appena tutto il lavoro burocratico fosse stato portato a termine, il colpevole denunciato e la documentazione inviata all'ufficio del magistrato inquirente. Ma quello era comunque uno dei piaceri derivanti dal trovarsi a capo del Nucleo investigativo per la tutela del patrimonio artistico italiano. Nelle rare occasioni in cui si riusciva a recuperare qualcosa, di solito ne valeva la pena.
Mentre aguzzava gli occhi per vedere meglio il dipinto, sentì una voce alle sue spalle: "Niente male, non le pare?" Bloccando gli ultimi ansiti di fatica, si voltò. Flavia Di Stefano era una di quelle splendide donne che, secondo Bottardi, soltanto l'Italia era capace di generare, destinate a trasformarsi in mogli e madri devote, quando non sceglievano invece di dedicarsi a un'attività lavorativa. E, in questo secondo caso, s'impegnavano talmente a fondo, per mettere a tacere i sensi di colpa indotti dal rifiuto del tradizionale ruolo femminile, da battere qualunque maschio di svariate lunghezze. Proprio per tale motivo otto dei dieci assistenti di Bottardi erano donne, il che, come lui ben sapeva, aveva indotto gli altri reparti di polizia ad affibbiare alla sua squadra uno sprezzante nomignolo. Però, a voler dirla tutta, il "bordello di Bottardi", perché così era stato soprannominato il suo ufficio da alcuni colleghi chiaramente gelosi, mieteva successi. Diversamente da altri funzionari, di cui lui avrebbe potuto fare nomi e cognomi.
Rivolse alla ragazza un benevolo "buongiorno". Ma, più che una ragazza, era una donna, pensò, accorgendosi di essere arrivato a un'età in cui ogni creatura femminile al di sotto della trentina gli sembrava ancora una fanciulla. Provava per lei una grande simpatia, anche se Flavia pareva totalmente incapace di trattarlo con la deferenza che il suo grado, gli anni e la sua competenza avrebbero richiesto. Facendo riferimento alle sue rotondità fisiche, alle quali solo qualche amico si permetteva di alludere, con la maggior delicatezza possibile, lei lo definiva, con affetto e senza alcun imbarazzo, "vecchio baule". A parte questo, era una collaboratrice quasi perfetta.


© 2000, Longanesi & C.

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