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Recensione Italo Moscati

Italo Moscati

Il cattivo Eduardo

le prime pagine
------------------------
ITALO MOSCATI

PERCHÉ "CATTIVO",
NEL PAESE DEGLI UOMINI DAI CAPELLI LISCI

Sono le ventuno e trenta.
Il pubblico si affolla davanti al botteghino. Fra un
quarto d'ora avrà inizio lo spettacolo. Ecco l'unico
istante nel quale sento la responsabilità enorme del
mio compito: questa folla è anonima, sconosciuta, esi-
gente. E mai come in questo istante io sono fuori,
ancora completamente fuori del cerchio della finzione.
Non mi sento ancora convinto di ciò che dovrò essere,
fra qualche minuto, sul palcoscenico. Mi sento confuso
alla folla e mi sembra che debba anch'io avvicinarmi al
botteghino e chiedere un posto di poltrona, per assiste-
re allo spettacolo. Fino a che la luce della ribalta non
m'acceca con le sue piccole stelle luminose e il buio
della sala non spalanca il suo baratro infinito, io non
prendo, né so, né posso prendere il mio posto della
finzione. I minuti inesorabili m'inseguono. E nella loro
corsa mi prendono, mi travolgono, mi spingono verso
la porticina del palcoscenico, che si richiude, sorda,
alle mie spalle.
La barriera è chiusa.
Due tocchi al trucco. Il campanello squilla: la prima e la seconda volta.
La tela si leva.
Ecco le piccole stelle. Ecco il baratro. Ecco l'attore.
EDUARDO DE FILIPPO, Sik-Sik, l'artefice magico




Eduardo, piano piano, sik-sik, secco secco, entra nella mia vita quando ancora non ho messo piede in teatro né l'ho visto al cinema. A presentarmelo è il caso. In una scena che mi torna in mente di tanto in tanto, e che è rimasta indelebile nella retina dei miei occhi. Anzi, non è una scena sola, sono due.
La prima è del 1944. Periferia di Bologna, lungo la via Emilia che porta a Rimini e all'Adriatico. La strada dritta come un righello di scuola s'incunea nell'abitato e poi si smarrisce in un reticolo di vie e viuzze. Ma chi volesse voltare la testa dall'altra parte, non potrebbe farlo: l'antica arteria, sepolta dall'asfalto e circondata dalle case, sembra essere lì apposta per rammentare a tutti che porta il marchio della storia.
Nell'ottobre del 1944 a lasciare il segno profondo sono i carri armati Leopard dell'esercito tedesco. Vanno e vengono dalla linea Gotica dove gli alleati premono per abbattere le tenaci resistenze dei soldati di Hitler e degli scampoli delle truppe della Repubblica sociale di Mussolini.
I carri mimetizzati passano fra ali di bambini che li guardano sempre stupiti, affascinati dall'imponenza e dai lunghi cannoni che escono da cabine blindate dove brillano occhi cerchiati di polvere dietro strette fessure, storditi ed eccitati dal rumore dei cingoli che vanno a ritmo veloce, da fox-trot. Gli adulti non guardano e non si soffermano; c'è la lunga fila da fare ai negozi con la tessera annonaria in mano, e c'è il parroco che chiama le sue pecorelle perché diano un aiuto alla famiglia in cui si lamenta un malato o si piange un disperso sui molti fronti di battaglia.
I bambini si divertono. Gli americani hanno appena bombardato.
È stato bello svegliarsi nel cuore della notte e rifugiarsi in cantina fra i sacchetti che si possono bucare per farne uscire tanta sabbia con la quale costruire un gran castello come sulla spiaggia. È bello che la mamma abbia preparato la colazione di caffelatte e di vecchio pane abbrustolito. Bello che il signore anziano del pianerottolo sia già pronto a fare una partita a carte con chi ci sta, anche con chi non ha l'età. È bello spiare dalle finestrelle i lampi della contraerea che fanno a gara con i razzi sparati nel cielo nero nero. È bello toccare il piccolo seno della ragazzina perché, come dice lei che è più grande e l'assicura, così fanno i grandi in divisa prima di partire per andare a fare la guerra. Bello pensare che l'indomani si andrà a caccia delle schegge acuminate delle bombe esplose che si collezionano come gioielli da scambiare al mercatino dei giochi proibiti. È bello, anche se il gatto è morto da ore e puzza un po', seppellire quei peli e quelle quattro ossa con tutti gli onori militari. Tutti i giorni così.
Ma la vera festa si scatena nel pomeriggio del sabato. Accanto al ponte della ferrovia sul quale si accaniscono le fortezze volanti, c'è un ospedale militare. I feriti sono centinaia e, se non sono a letto, ciondolano coperti di garze come mummie da un vialetto all'altro, dandosi grandi colpi con le mani sulle spalle e sui fianchi per scaldarsi. Attendono il pomeriggio del sabato con un'impetuosa emozione. Quel pomeriggio sembra importare loro più dell'annuncio della fine della guerra che forse pare lontana, quasi un'illusione, marcati some sono nella carne dallo scetticismo oltre che dai proiettili nemici.
L'occasione è unica, persino irripetibile, se il cielo si coprirà di altre fortezze volanti: ogni volta potrebbe essere l'ultima. Per questo motivo, nei bagni dell'ospedale o nei letti davanti allo specchietto tenuto da un parente o da un commilitone, ci si fa la barba e ci si pettina con cura. I capelli soprattutto devono essere ravviati e lisci, domati con la brillantina, ordinati e lucenti.
In questa cura c'è - l'ho pensato poi - anche il desiderio di tornare agli anni di pace in cui vivevano, secondo le fotografie degli album di famiglia o dei giornali illustrati, gli italiani e le italiane dagli abiti semplici e ben stirati, dagli eleganti cappelli o cappellini che coprivano le composte pettinature, dalle scarpe splendenti di crema, se non erano costretti ad indossare facendo sfoggio la divisa per le adunate o le esercitazioni paramilitari. Ma c'è sopra ogni altra cosa l'ansia di mostrarsi a posto, perché l'occasione è molto speciale, una vera rarità sotto le bombe e il coprifuoco.
Il sabato pomeriggio "la tela si leva" nel grande refettorio che sa di sugo al pomodoro e comincia lo spettacolo. Ecco il sospirato appuntamento.


© 1998, Marsilio Editori

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