Recensione Georges Simenon La neve era sporca
Georges Simenon La neve era sporca
Il delitto non paga
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Simenon sarà sempre ricordato come l’inventore di quello straordinario personaggio che è il Commissario Maigret, di cui ha scritto tanti libri.
Ma un autore prolifico come lui non poteva, giustamente, limitare la produzione a una serie, peraltro ben riuscita, e allora ha scritto romanzi, per lo più di genere noir, e tutti, tranne qualche raro caso, di maggior valore. Non è possibile al lettore dimenticare opere come I fantasmi del cappellaio, Corte d’assise, Il destino dei Malou, Pioggia nera, L’uomo che guardava passare i treni, solo per citarne alcune. E sempre, soprattutto in queste, si resta stupiti della capacità di Simenon di descrivere in modo perfetto l’atmosfera, di sondare nei più piccoli anfratti la personalità dei protagonisti. Fino a poco tempo fa non ero riuscito a trovare un romanzo che si discostasse dall’eccellenza a cui ormai mi ero abituato, ma, si sa, non tutte le ciambelle riescono con il buco e, ahimé, la serie altamente positiva si è improvvisamente interrotta in modo inaspettato con un noir scritto durante il soggiorno di Simenon negli Stati Uniti. Mi riferisco a La neve era sporca, che parla ancora una volta di una mente malata, di cui l’omicidio è quasi naturale conseguenza. La vicenda in sé è valida, con la figura di questo diciannovenne Frank che uccide per dimostrare a se stesso di essere adulto e all’altezza dei criminali dell’ambiente in cui vive. Il delitto però non paga e in un individuo ancora in formazione cominciano ad affiorare i dubbi, le false certezze si incrinano, complice anche l’universale sentimento dell’amore, e così piano piano tutto gli sembra diverso, sciatto, perverso, inutile, tanto da non ribellarsi al destino che gli riserverà un tragico epilogo.
Simenon dimostra ancora una volta la sua innata capacità di analizzare, in tutte le sfaccettature, i suoi personaggi, un’analisi fine in cui riesce a trovare anche una scintilla di salvezza.
Quello che invece non risulta - almeno a mio avviso - in linea con le tradizionali capacità dell’autore belga è la descrizione dell’ambientazione, e non solo di quella, perché l’atmosfera appare non palpabile, ma artificiosa. Non è improbabile che il tutto derivi dalla localizzazione della vicenda, che si svolge durante il secondo conflitto mondiale in un paese indefinito dell’Europa Centrale, sotto una dura occupazione che non sembra quella tedesca, bensì quella sovietica. Del resto, come esposto in una nota introduttiva, lo stesso Simenon nel corso di un’intervista a proposito di questo romanzo precisò “L’importante è che l’esercito di occupazione non sia riconoscibile, di modo che l’opera abbia un carattere universale. Anche se, a essere sincero, nella mia mente l’azione si svolge nell’Europa centrale, e precisamente durante l’occupazione russa. Ambienti e nomi sono quelli di una città austriaca o ceca.”. Ecco, il non aver sperimentato direttamente il tallone dell’orso russo ha costretto Simenon ha inventarsi una sorta di regime oppressivo, in parte simile a quello nazista, ma che non corrisponde a quello comunista, di cui probabilmente aveva alcune indicazioni, incomplete, enfatiche, dai giornali americani, impegnati nella lunga battaglia della guerra fredda.
E così, mentre ne I fantasmi del cappellaio l’ambiente, l’atmosfera francesi appaiono al lettore del tutto naturali, qui invece si riscontra un’artificiosità propria di chi si è abbandonato, in mancanza di una diretta conoscenza, agli stereotipi della stampa. Ne risulta così sì un regime oppressivo,
ma che appare un frutto della fantasia, perché nella realtà in quei posti e all’epoca della vicenda la vita era ben più grama, cupa e angosciante.
Comunque, Simenon è sempre Simenon, quel grande scrittore capace di avvincere il lettore con un’abilità spesso sconcertante e mi sento di perdonargli una ciambella riuscita senza buco, perché l’impasto è ancora buono e una stroncatura sarebbe fuori luogo e ingiusta, tanto più che la lettura è senz’altro piacevole.
Insomma, più che una caduta, è una scivolata senza aver toccato terra, ed è per questo che concludo dicendo che La neve era sporca è senz’altro da leggere.
Di Renzo.Montagnoli
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