Recensione Haruki Murakami L'arte di correre
Haruki Murakami L'arte di correre
Corro, dunque sono - "L'arte di correre" di Haruki Murakami
In un uggioso sabato pomeriggio mi capita sotto gli occhi un articolo a proposito di "1Q84", l'opera più recente di "quel giapponese in odore di Nobel", alias Haruki Murakami. Incuriosita, vado in cerca di altri suoi libri e m'imbatto ne "L'arte di correre", edito da Einaudi. Il primo pensiero è stato qualcosa come "Oddio, no, nessuno mi convincerà a correre, io odio correre!", ma decido di iniziarlo. Nella prefazione, mi riempie di sollievo leggere "Non ho alcuna intenzione di lanciarmi in esortazioni edificanti - forza, manteniamoci in forma correndo ogni giorno qualche chilometro! - no, voglio soltanto fare alcune riflessioni, o forse un soliloquio, su ciò che ha significato per me, per la mia persona, praticare la corsa per tutto questo tempo". Dopo questa lieta premessa, rincuorata, mi tuffo nelle memorie di Murakami.
Dal 1982 si allena con regolarità: tump, tump, tump, jogging ogni giorno, ogni anno una maratona e un gran numero di gare più brevi. Semplicemente, "coprire a passo di corsa lunghe distanze è consono al mio carattere, mi fa sentire felice".
In realtà è stata una repentina metamorfosi: prima gestiva un jazz-bar a Tokyo, dividendo per quasi sette anni le sue giornate tra contabilità e scrittura per combattere l'insonnia. Nel 1981, dopo i primi due romanzi decide finalmente di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. “Nel segno della pecora” è il lungo romanzo che esce in seguito, grazie al quale Murakami si crea uno stile personale, comprendendo anche “che cosa fantastica fosse - e che fatica - concentrarsi nella scrittura”. Diventato uno scrittore professionista, il primo problema da risolvere era come mantenersi in forma: “Stando seduto dal mattino alla sera alla scrivania, a poco a poco mi indebolivo, concentrarmi mi rendeva nervoso [...], ero arrivato a fumare sessanta sigarette al giorno; [...] così, smettere di fumare divenne il simbolo di passaggio a una nuova vita”, insieme alla corsa. Tump, gare di cinque km, tump, trentacinque km nel parco del palazzo imperiale, tump, nuovi fasci muscolari, tump, perché non partecipare a una vera maratona?
Nell’estate 1983 arriva l’occasione inaspettata: un viaggio in Grecia promosso dall’Agenzia per il Turismo del governo greco, a cui partecipa come reporter. Murakami ha quindi occasione di provare gli storici 42 km al contrario, da Atene a Maratona, nell’afa estiva, appiccicosa e opprimente. Una volta raggiunto il traguardo, “non provo alcun senso di soddisfazione. L’unica cosa che occupa la mia mente è un senso di sollievo, il pensiero che è finita, che posso smettere di correre”. Nel giro di poche ore eppure dimentica la sofferenza e “mi dico, più determinato che mai, che la prossima volta correrò molto meglio.”
Questo è solo il primo step di quasi trent’anni passati con le inseparabili scarpe da jogging ai piedi, ogni mattina, tra ventiquattro maratone, la terribile ultramaratona di 100 km nell’Hokkaido e tantissime gare di triathlon (nuoto, bici e corsa).
Parimenti continua a scrivere per tre-quattro ore al giorno, pubblicando nel 1987 “Norwegian Wood”. Toru è una sorta di Holden Caulfield di Tokyo e la sua storia diventa uno dei più clamorosi successi letterari giapponesi di tutti i tempi, con oltre dodici milioni di copie vendute.
Murakami quindi spiega le motivazioni profonde del suo correre, intrinsecamente legato al suo essere. Alla fine, “scrivere è un’attività malsana. Quando decidiamo di creare una storia dal nulla servendoci di parole e frasi, necessariamente estraiamo e portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano. Lo scrittore deve maneggiarlo con abilità [...], poiché senza di esso un atto creativo dal significato autentico non è possibile, [...] come quando si dice che la parte più buona del pesce palla è quella più vicina al veleno”. Per neutralizzare quell’elemento tossico, è necessario costruirsi un sistema immunitario specifico e personale, “basato su quale forza interiore se non quella fisica di base?”.
In conclusione, è una raccolta di memorie, scritta nell’arco di tre anni; una riflessione profonda sul suo modo di essere e sulla necessità quotidiana di mettersi costantemente in gioco. Leggere questo libro fornisce un’autentica idea di chi ci sia dietro a questi grandi successi letterari e di come riesca, nonostante tutto, a conservare una semplicità ed un’umiltà davvero disarmanti.
“Si dica quel che si vuole, ma io sono un maratoneta. Come vengano giudicati il tempo che ottengo in gara e il mio posto in graduatoria è di secondaria importanza. Ciò che conta per me è tagliare un traguardo dopo l’altro, con le mie gambe. Usare tutte le forze che sono necessarie, sopportare tutto ciò che devo, e alla fine essere contento di me. Se mai ci sarà un epitaffio sulla mia tomba, vorrei che venissero scolpite queste parole:
Murakami Haruki
Scrittore (e maratoneta)
1949-20**
Se non altro, fino alla fine non ha camminato.
Al momento è tutto ciò che spero”.
Di vale25
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