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Recensione Il disperso di Marburg
C’era una volta un cavaliere biondo su un cavallo bianco
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Nel cuneese circolava una leggenda, quella di un tedesco “buono”, che durante la guerra usciva a cavallo dalla caserma di San Rocco, scambiava qualche parola con i bimbi, donava un sigaro a un contadino e ogni giorno, alla medesima ora, ritornava in caserma. La sua pareva un’innocente passeggiata, in parte lungo la sponda del fiume locale, quasi un tentativo di avere, sia pur per poco tempo, un sogno di normalità nell’atroce tedio della guerra. Ma era imprudente, perché la zona pullulava di partigiani e accadde così che un giorno alla caserma ritornò solo il cavallo e di lui non si seppe più niente, tranne poche parole mormorate a voce bassa dalla popolazione locale che raccontava di come, catturato da patrioti, o da sbandati, oppure da colpisti (tanto per intenderci, quelli di vado, l’ammazzo e torno), fosse stato ucciso su un isolotto del corso d’acqua e di come il suo corpo fosse rimasto a lungo nascosto nella bassa boscaglia, fino a quando una piena del fiume l’aveva portato via, lasciando solo un lembo di stoffa bianca impigliato in un ramo.
Quando ne venne a conoscenza Revelli erano già trascorsi molti anni dal fatto, ma la figura del tedesco buono e del disperso presero il sopravvento sul razionale quotidiano, tanto da indurlo a effettuare una lunga ricerca storica, sulla base di prove orali e documentali, per sapere se questa leggenda avesse un fondamento, per dare un nome alla vittima e, soprattutto, per verificare se davvero fosse stato buono, perché lui, Revelli, di tedeschi buoni non ne aveva conosciuti, anzi aveva cominciato a odiarli durante la campagna di Russia, sentimento che si era ulteriormente acutizzato nel periodo della Resistenza.
La ricerca fu lunga, snervante, quasi impossibile e di questo lavoro straordinario abbiamo il resoconto con questo libro, in cui l’autore riporta, diaristicamente, il progredire delle indagini, le sensazioni, gli stati d’animo, il continuo riaffiorare di ricordi degli altri dispersi suoi compagni d’arme in Russia e di episodi indelebili della sua attività di partigiano.
Ne nasce una strana opera, che non è né saggio storico, né romanzo, ma che porta le caratteristiche di entrambi, con un “io” narrante che lascia chiaramente trasparire l’ansia di arrivare alla fine, di sapere, nella particolare condizione che un nemico è un’ombra senza volto da uccidere, mentre il nemico, quel nemico, perde le caratteristiche di bersaglio anonimo, diventa poco a poco parte di noi, sì che odiandolo odiamo noi stessi.
E’ un lavoro non facile, ma lo stile asciutto di Revelli molto aiuta nel trasmettere l’immediatezza degli stati d’animo, nell’intuire ciò che l’autore ha timore di rivelare perfino a sé medesimo.
Il percorso è doloroso e più ci si avvicina alla meta più risalta l’umanizzazione della vittima, probabilmente non buona, ma nemmeno cattiva. E il nemico così, a mano a mano che si conosce, diviene la nostra ombra, in un crescendo di commozione che l’autore conclude così malinconicamente: “Ogni qual volta rivivo l’episodio di San Rocco mi rivedo davanti agli occhi quel brandello della maglia bianca di Rudolf, risparmiato dall’onda lunga del fiume. Come il segnale di un destino crudele, di una vita sprecata, di una resa.” (pag. 174)
Rudolf Knaut perde il suo alone di leggenda, ma induce il nemico Nuto Revelli a provare un sentimento di autentica umana pietà.
Il disperso di Marburg è un bellissimo libro contro la follia di ogni guerra.
Di Renzo.Montagnoli
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