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Recensione Ignazio Silone

Ignazio Silone

Il seme sotto la neve

Ignazio Silone Il seme sotto la neve
Ignazio Silone Il seme sotto la neve

Uno strumento di battaglia civile
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“Non avevo mai pensato che una zolla di terra, osservata da presso, potesse essere una realtà così viva…La stranezza è giusta: sono nato qui, in campagna, e poi ho viaggiato mezza Europa, sono stato una volta, per un congresso, fino a Mosca; quanti campi, quanti prati ho dunque visto…; eppure non avevo mai visto, in quel modo la terra…Quale avvenimento emozionante fu per me un mattino la scoperta, in quella zolla di terra, d’un chicco di grano in germoglio.”


Il seme sotto la neve esce nel 1941 a Zurigo in lingua tedesca e il medesimo anno a Lugano in italiano, quando Ignazio Silone ha già raggiunto fama internazionale prima con Fontamara e poi con Pane e vino. Come in quest’ultimo romanzo il protagonista principale è l’esule antifascista Pietro Spina, che può essere considerato, a buona ragione, l’erede di Berardo Viola, il personaggio principale di Fontamara. Silone realizza così una trilogia, affascinante, di alto valore letterario e storico, su un tema, per niente facile, e che è rappresentato dalla condizione sociale in epoca fascista, anche se in questo si innestano altri filoni, che vanno dall’analisi attenta dell’arretratezza economica alla ricerca di un senso della vita, al di sopra di qualsiasi ideologia politica.
Le esperienze che l’autore aveva avuto, i contrasti insanabili, dapprima con i membri del Partito Comunista e poi con la sua stessa coscienza, avevano fatto maturare una visione realistica della situazione con uno sbocco di altissimo valore cristiano, una soluzione proposta non per un determinato periodo, ma per il futuro dell’esistenza umana, con il ricorso alla gratuità in contrapposizione alle leggi fameliche e distruttrici di un’economia di mercato.
Se Vino e pane è un romanzo dalla struttura armoniosa che trasmette, senza impedimenti, un flusso continuo di emozioni, lo stesso non si può dire per Il seme sotto la neve, a tratti eccessivamente elaborato, a volte grevemente statico, altre ancora invece arioso, quasi etereo e in questi casi entusiasmante.
C’è da dire, però, che la condizione dell’autore, nei suoi contrasti con la realtà dell’ideologia in cui così tanto aveva creduto, unita all’assenza, forzata, dal proprio paese, alimentano un desiderio maniacale di rappresentare un mondo soffocato da una coperta di silenzi, di omertà, di timori, di sostanziale amoralità; si tratta di un compito di per sé estremamente difficile e che lascia tracce nell’ambito strutturale, che si presenta altalenante, con una parte intermedia lunga e sovente pesante, quasi da scrittore russo dell’ottocento, ma con le pagine iniziali e finali che riscattano ampiamente il disagio, peraltro modesto, che si incontra appunto nella lettura della parte centrale.
Tuttavia, è necessario evidenziare come le lunghe pagine in cui si parla dei salotti dei gerarchi, dei loro discorsi di eloquenza senza costrutto, ma dove anche si intrallazza, sono, oltre che indispensabili, anche altamente illuminanti di un epoca di abulia e di sciocco servilismo che ricorda, non poco, i nostri giorni.
Lì ci sono assenze di anime, pavoneggiamenti da infanti viziati, crudeltà, quella crudeltà propria del mediocre che ricopre un ruolo superiore senza averne il merito, né l’umiltà. La vacuità è la norma, come gli sgambetti, come la conduzione di una vita ben lontana da qualsiasi convincimento di solidarietà, di unione, di partecipazione per uno scopo comune, se non, e solo a volte, per un affare dai contorni ben poco puliti. Questa nuova società assume così le caratteristiche di una vera e propria cricca, servile, forte con i deboli, sottomessa con i forti.
Ne deriva un clima pesante, di sospetti, di delazioni, di paure, di astrazione da una realtà troppo opprimente, in cui, chi non è parte degli ingranaggi, finisce con il vegetare.
Ma come sotto la neve germoglia il seme del grano, sotto questa coltre soffocante c’è ancora chi anella alla libertà e alla giustizia, come Pietro Spina, e vi sono anche altri germogli dormienti, ma che, se stimolati, possono crescere, come Simone la faina e il sordo Infante, e altri ancora. Basta camminare per queste terre di miseria, per queste montagne brulle e quasi inospitali - ma accorato e tenero è l’amore per la propria terra così lontana – per trovare altri che hanno una dignità, per dare loro una speranza, e in questo Pietro Spina, sceso fra loro, resosi umile fra gli umili, è un maestro, anzi verrebbe voglia di dire che è il Messia.
Apprenderà e insegnerà il significato autentico della parola libertà, si donerà agli altri per ricevere quel poco, ma che è invero tanto, che gli daranno, e infine, in un convinto altruismo, rinuncerà alla libertà del proprio corpo, per essere definitivamente libero, un gesto non fine a se stesso, ma che tanto ricorda il sacrificio di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini.
Il seme sotto la neve, pur con i limiti che ho sopra evidenziato, è talmente bello e profondo da poterlo considerare un altro capolavoro di questo grande scrittore abruzzese.

Di Renzo.Montagnoli

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