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Recensione D'allannullamento dei piani come superfici all'aurora del giorno dopo
Quando il ragazzo Franzese frequentava la scuola media, la sua casa era dentro un piccolo nucleo abitativo. L’orizzonte visivo non incontrava barriere, l’occhio spaziava seguendo liberamente la linea della campagna vesuviana. Questa, vestiva le pendici del vulcano fino alla casina rossa dei cantonieri, là dove il calvo cono alla sua base, durante la fioritura, si circondava di una corona di gialle ginestre facendolo somigliante alla zucca di un monaco buddista. Il pittore Mario Tabanella, maestro d’arte alle Medie, si rese subito conto di trovarsi davanti ad un piccolo genio del disegno, tanto da spingere il papà del ragazzo ad iscriverlo al Liceo artistico napoletano. Egli fece anche di più. Allorquando Franzese ebbe la disavventura di incontrare in quel liceo un professore di disegno ottuso, prese un giorno di ferie, si portò a Napoli e litigò furiosamente con quel signore. Tutto questo determinò il passaggio del giovane, dal Liceo artistico all’istituto d’arte napoletano”Palizzi”. Non voglio qui fare la biografia di Luigi Franzese, piuttosto far cogliere, subito, una delle caratteristiche strutturali della sua pittura, la montagna vesuviana come linguaggio, strumento di conoscenza mediatica, come può essere per un neonato il corpo dei genitori, della madre innanzitutto, la cui voce, il cui contatto corporale diventa il metro di paragone di tutto il processo d’apprendimento empirico. Il Vesuvio per il nostro pittore è microcosmo dove tutto c’è, e si dilata. Il Vesuvio con la sua campagna, è ortografia, grafologia e sintassi della pittura. Il Vesuvio, per il nostro pittore, non è solo un vulcano pericoloso, ma il ventre di madre terra. È vagina materna da dove scorre un parto di materia incontaminata sotto forma di fluidi lavici ma anche di scoppi gassosi, causa di morte individuale o fuoco ontologico e vitale, portatore di nutrimenti non solo minerali. È questo magma creativo che Franzese dipinge ed è per questo, che il suo percorso pittorico si mostra sempre in movimento, sempre teso a sperimentare nuove maniere. Il Vesuvio è la Natura, nel suo procedere fenomenico ma anche nella sua disponibilità a farsi mito, divinità pagana, cratere-bocca della grande madre terra. E per Franzese: -natura è tutto, natura è vita, natura è pittura- e: -Se tutto è natura, noi siamo parte di essa, ma lei è tutto e, se è tutto, poniamola in alto. Essere un discepolo della natura è essere qualcosa in più di un gran maestro: per questo ho scelto di essere un collaboratore della natura- Così scrive da qualche parte. A me sembra, riflettendo su questi concetti, che, per Luigi Franzese, il mestiere di pittore presupponga una sorta d’iniziazione, come per le Vestali. Una sorta di “Captio Virginis” per officiare “l’ignis Vestae” (il rinnovamento del fuoco sacro). Così, io credo, si deve intendere l’essere un discepolo della natura, il farsi suo collaboratore. Una sorta di sacerdote rispettoso che osserva la liturgia fenomenica in natura del farsi e logorarsi, officiandoli poi sulla sua tela.
Ufficialmente, l’esordio di Franzese pittore si ha nel 1980 a Napoli con una mostra alla galleria Dehoniana curata da Gino Grassi. Il titolo è “Annullamento dei piani come superfici”. Siamo nel decennio immediatamente successivo all’avvento della neo-avanguardia, allorquando tutta la struttura culturale dominante era considerata vecchiume. Una delle discussioni che si tenevano in quegli anni comprendeva la funzione del telaio e della tela. Il telaio era considerato, allora, quando tutto era obbligato ad emanciparsi, una sorta di castrazione della figura: per questo, alcuni pittori (Sgueo ad es.), dipingevano anche sul passe-partout, cosa che non eliminava del tutto il filo spinato della cornice.
La trovata di Franzese all’esordio fu geniale, perché, utilizzando come supporto della tela una rete metallica piegata ai quattro lati, invalidava i limiti ai bordi, aggiungendovi anche una prospettiva volumetrica.
La mostra ebbe un grandissimo successo e gli valse il riconoscimento critico di Filiberto Menna.
Ebbe così inizio il suo itinerario pittorico. Con l’esordio, aveva voluto mostrare di essere nel tempo moderno, tuttavia il suo obiettivo artistico non tendeva alla ricerca di un linguaggio impastoiato da mode. Non era il concettualismo la sua massima aspirazione, ma una pittura-pittura dove tutto poteva affrancarsi, senza i recinti delle correnti, senza
appartenenze, dove qualsiasi tecnica poteva servire e funzionare al servizio della pittura. Il fine era la realizzazione di una dialettica pittorica ove il compiuto avrebbe azzerato tutto il precedente ed insieme le cose e la materia (il verisimile), proponendosi “in fieri”, in una sorta d’altalena, dove accenni figurativi si sarebbero sollevati gocciolando splendori come dopo un’immersione in un mare cangiante. Si tratta di una bellezza che può trovarsi solo in certi miracoli dell’arte o della Natura.
Un itinerario così non poteva che iniziare da “la Materia” mostra del 1981, dove l’osservazione e quindi la realizzazione artistica coglieva il peso gravitazionale del corpo pittorico e le sue antinomie cromatiche, sperimentando la possanza delle superfici e la sua energia potenziale. Passerà poi attraverso i cicli pittorici trasversali di “Entropia Vesuviana” “Orizzonte degli Eventi” ed “Aurora degli Eventi” fino a “Gli eventi della materia”. Dall’iniziale nucleo di disordine la materia si libera in colore, si liquefa, l’artista utilizza la temperie più adatta per offrire alla tela l’intervento diretto di mastro Natura, che colora e scolora a suo capriccio, facendosi complice dell’artista che ne segue le sollecitazioni correggendone le mosse. Siamo alla fine del 1986. Da questo momento l’attività pittorica di Franzese prosegue, con un breve intervallo di tre anni (1991-1994), ininterrottamente, sempre per cicli, per quasi un ventennio. C’è un continuo gioco di rimandi da un ciclo all’altro, una sorta di trasversalismo pittorico. Per questo l’itinerario del racconto avanza per cerchi concentrici come avviene con il propagarsi delle onde sonore. Si comprende facilmente perché. Come abbiamo suggerito prima, Franzese è alunno della Natura e la lezione che a lui arriva da siffatto maestro è il modo ciclico di avanzare. Che cosa racconta Franzese? Semplice. Tutto viene dalla terra e tutto vi ritorna. Parla della gioia e del dolore, del nascere e morire e rinascere, della fragilità dell’essere, della precarietà delle forme e del vivere, del Caos e del Cosmo, delle disarmonie estreme che la ragione e il sentimento possono ricomporre, come succede in natura, con l’atto creativo, o per genialità di un pittore. Abbiamo già accennato che un artista alla maniera di Franzese è un iniziato alle liturgie di madre Natura. Alle sue falde egli confonde Vesuvio e ventre gonfio e pronto al parto. L’esplosione che ne scaturisce è energia vitale, caotica e riparatrice, che avvampa cancellando il precostituito, ripartendo minerali alla terra e nuova linfa. Ecco perché le sue tele si presentano così magnifiche di splendori cromatici e di trasparenze, non solo quando esprimono deflagrazioni di materia infuocata ma anche se propongono momenti di pausa cosmica dove il fondo si fa cielo ed il fiore ginestra, brillio astrale. Ho idea che, in questo caso, il nostro artista cerchi, un segno essenziale, quello capace di farsi icona di un Cosmo non altrimenti descrivibile.
Le ultime opere appartengono, e sono recentissime, al ciclo “L’aurora del giorno dopo”. Già il titolo presuppone l’evento ed il bagliore del giorno che nasce. Al centro della tela fa capolino, pressandola da sotto e strizzandola, un pezzo di lava. Cos’è? Un occhio, un frammento, un ricordo, un meteorite? Curata dal professor Vito Maggio, da sempre entusiasta promotore d’eventi culturali, sabato 18 dicembre 2010, s’è inaugurata al Maschio Angioino in Napoli, la mostra antologica del maestro di pittura Luigi Franzese da S. Giuseppe Vesuviano. L’esposizione è proseguita fino al 3 gennaio 2011.
Assente giustificato il prof. Guido D’agostino della “Federico II di Napoli, la mostra è stata introdotta da Vito Maggio che ha brevemente accennato al fascino della pittura di Franzese capace di coniugare natura e cultura in un processo creativo di grande perizia in continua fermentazione.
Il professore Santino Campagna, responsabile nazionale istruzione artistica, ha sottolineato i due piani di lettura, quello squisitamente visibile e godibile e quello più propriamente intimo e profondo.
Il critico d’arte, prof.ssa Antonella Nigro, ha enumerato, approfondendoli, i vari elementi costitutivi del linguaggio pittorico di Luigi Franzese, soffermandosi in modo particolare sui simboli presenti con maggiore frequenza.Tra questi, quello caratterizzato dal fuoco, rilevandone il suo aspetto distruttivo ma anche profondamente innovativo.
La mostra mi è piaciuta, così come il catalogo che ne riassume i contenuti, iniziando dal titolo “Del Vesuvio”, quasi a ricordare un altro titolo, quello di un grandissimo poeta latino. Mi riferisco al “De rerum natura” di Lucrezio Caro. Inoltre il catalogo ospita gli scritti critici del curatore Vito Maggio e delle firme eccellenti di Guido D’Agostino, di G. Battista Nazzaro. Quest’ultimo sostiene il suo giudizio critico con i versi di Marziale che canta “del Vesuvio amato da Bacco più di Nisa, del Vesuvio dove ieri danzavano satiri e ninfe con Venere che vi dimora”. Ora, permettetemi la digressione, incredibile a dirsi: luogo di megadiscariche. Giuseppe Cantillo arricchisce il catalogo avvalendosi della “Critica del giudizio” di Emanuele Kant. Egli espone la convinzione di una convivenza possibile fra vita e pensiero, immaginazione e ragione. Per dirla alla maniera di Dante, intelletto di ragione ed intelletto d’amore.
Questa mostra antologica mi è piaciuta anche perché, finalmente, dà modo al visitatore di cogliere, nella sua globalità e con buon’approssimazione, la poetica pittorica di Franzese. Raccoglie uno spaccato di trent’anni d’attività, durante i quali, il maestro ha ricevuto consensi da critici di grandissima sensibilità come Giulio Carlo Argan, Filiberto Menna, Franco Solmi, Gerardo Pedicini ecc.
Persino il buon padre di famiglia, davanti a questi quadri, si rende conto di ammirare dei preziosi, deliziosi dipinti, dove il cromatismo è di una fattura aerea ed il nitore è di quelli che si sviluppano solo per accidenti molto particolari, in natura. A questo punto, bisogna ricordare ancora al lettore che Franzese, a suo tempo, elesse per sé, due maestri: il compianto terzignese Emblema e la Natura. Da Emblema imparò l’arte di osservare e manipolare l’orizzonte visivo, dalla Natura quella di dipingere. Ma non di dipingere il paesaggio vesuviano per mero gusto paesaggistico. Un artista che vive a S. Giuseppe Vesuviano, che ha davanti allo sguardo, di continuo, il paesaggio vesuviano, utilizza quello che ha a portata di mano facendone un linguaggio d’arte con il suo genio creativo. È sbagliato, ottusamente limitativo, pensare a Franzese come pittore del vesuviano, perché la materia vesuviana della sua pittura non è legata al luogo ma investe gli elementi primi dell’universo. La Nigro giustamente ha colto, com’essenziale nella pittura del Nostro, l’elemento fuoco ma anche un vestito di naturale religiosità nelle figurazioni simboliche più presenti. Per Franzese c’è questo nella tensione estrema dell’atto creativo: la temperatura della passione, la furia distruttiva, ma anche la possibilità di svecchiamento e di innovazione possibile dopo una tabula rasa. È la maniera che ha Madre Natura per rinnovarsi. Franzese è, non dimentichiamolo mai, un suo discepolo e collaboratore.
Salvatore Violante
N.B. pubblicata sul n. quarantesimo di "Secondo Tempo" Marcus Edizioni Napoli
Di Salvatore Violante
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