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Recensione Andrea Molesini L’orrore di una guerra segna la fine di un’epoca “Io… io, madame… ho visto i miei soldati venire su da quel fiume, venivano su dall’acqua, come i vostri gnocchi di patate nel tegame, mi capite, madame? Gnocchi nell’acqua che bolle”. Non ci sono eroi, ma solo le vittime in questo bel romanzo di Andrea Molesini. La guerra è un mostro che fagocita tutto, che irrompe nelle vite di ognuno imponendo sacrifici e decisioni in contrasto con la propria natura. L’occupazione nemica delle terre a est del Piave dopo la disastrosa ritirata di Caporetto è stato un tema sempre sfiorato, ma mai effettivamente affrontato e quindi questo romanzo, dal titolo insolito, pone rimedio a una mancanza quasi colpevole. Infatti, se è vero che le nostre truppe compirono immani sacrifici lungo le sponde del Piave per difendere il nostro paese, lo è altrettanto che gli italiani, caduti sotto il dominio militare austriaco, resistettero eroicamente, colpiti dalle violenze, dai saccheggi, dalla fame, totalmente in balia del nemico. Quindi non c’è l’orribile guerra di trincea, così ben descritta da Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale o da Lussu in Un anno sull’altipiano, c’è invece l’attesa nelle retrovie, lì occupazione nemica, il sentirsi ospiti in casa propria. E forse la visione che danno dei semplici civili di un così immane conflitto offre la misura dell’angoscia di chi non combatte con le armi, ma con la sua coscienza, con la propria dignità. In queste pagine, che partono da un fatto realmente accaduto, si dipana una storia di vita e di morte, in un’atmosfera spesso pesante, foriera di continue sventure, in cui sembra non esserci posto per la pietà, anche se poi questo pregio, così tanto in disuso, si svilupperà come la brace che accende il fuoco. In un conflitto crudele e sanguinoso c’è posto per tutto, per la ferocia dell’omicidio e per l’aiuto al nemico ferito, contrasti tipici dell’uomo in situazioni limite. Fra gli scoppi delle bombe, i gemiti dei moribondi, la puzza di piscio, la fame che regna ovunque, si concretizza anche la fine di un’epoca, quella delle buone maniere che accomunavano la borghesia sorta con la restaurazione e i patrizi d’origine, quelle dei baciamano, quella cavalleria intesa come irrinunciabile vocazione estetica. E così le divise inamidate si sporcano del lordume della guerra, gli animi intessuti di convenzionali ideali si trovano a combattere fra un concetto della vita messo in discussione dagli eventi e la rinascita di una coscienza individuale, e non più collettiva di ceto, che sembra incapace di reagire razionalmente. Non c’è forse nessun odio fra i protagonisti, ma in tutti c’è la rassegnazione per la consapevolezza della fine di un mondo che non potrà più ritornare. La disponibilità a una relazione fra la zia Maria e il barone von Feilitzsch , il suo quasi patetico tentativo di offrirsi a lui per salvare il ragazzo dalla fucilazione e la sofferta reazione dell’uomo che non si piega, perché siamo in guerra, perché l’Austria si avvia alla sconfitta, perché non può perdonare dopo che ha visto i suoi soldati morti salire in superficie dal ribollire del Piave, danno il senso chiaro del dramma che, serpeggiando, alla fine è uscito allo scoperto. La belle epoque è finita, i valzer alla corte di Vienna saranno solo un ricordo e c’è qualche cosa che è peggio della morte ed è uno stile di vita cancellato per sempre, il cui ricordo sarà strangolato dal rimpianto. Molesini ha uno stile asciutto, a volte perfino essenziale, anche se non disdegna inserire alcune note poetiche; i personaggi sono calibrati, una caratterizzazione che non denota mai eccessi, alcuni anche naturalmente simpatici, e fra questi pure dei nemici; la narrazione scorre fluida, senza intoppi, equilibrata armonicamente, una sorta di lungo adagio che, in alcuni momenti di particolare drammaticità, opportunamente si impenna, si accentua senza mai però arrivare all’eccesso; la trama, dove non poco conto ha lo spionaggio, è indovinata e quindi non c’è da meravigliarsi se questo romanzo riesce ad avvincere dall’inizio alla fine. Altra nota positiva è l’uso esemplare della lingua, non accademico, ma sciolto. E il titolo un poco strano? E’ il moccolo che tira un sacerdote, anche lui in preda al turbine della guerra. Non tutti bastardi sono di Vienna segna un esordio ampiamente positivo, è un bel romanzo e quindi sicuramente da leggere e anche da rileggere, perché non mancano di certo spunti per ampie e approfondite riflessioni. Di Renzo.Montagnoli
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