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Recensione Federico M. Giuliani Una scrittura innovativa per il mondo dei reality show (a commento di Federico M. Giuliani, Turpe diva, Zedda Editore, 2009) di Umberto Vals Che cosa ha inventato la televisione negli ultimi dieci anni? Su che cosa essa si regge, in termini di format vincenti? Da dove le società emittenti traggono il maggior lucro con gli inserti pubblicitari? I dati di mercato, i produttori, e i critici di settore non hanno dubbi nel rispondere a questa domanda. Sono i reality show. Dopo il GF 1 dell’autunno 2000, che ha posto in luce un personaggio – Pietro Taricone - il quale sta già, giustamente, nel mito dei belli e dannati (più di Depp e al pari di Dean perché chi muore giovane è caro agli dei), abbiamo visto sui teleschermi una ridda di reality show, dai nomi e dai contesti più eterogenei (L’Isola dei Famosi, Music Farm, La Talpa, La Fattoria, La Pupa e il Secchione, per tacer poi di Amici di Maria de Filippi e di X Factor, cui si aggiungono i “minori”, come La Sposa Perfetta e S.O.S. Tata ). MTV, inoltre, ci permette di vedere stralci dei reality show statunitensi, sebbene – giova il ricordarlo – la “invenzione” del format è di Endemol Olanda, con il “capostipite” Grande Fratello appunto. Ebbene, che cosa ha fatto la letteratura italiana di fronte a questo fenomeno planetario? Semplice. E’ rimasta ingessata, calcificata come un vecchio bacucco - rigida e ipercritica, ostile al un dato fenomenico importante, snobbando ciò che non ha senso snobbare, e sostanzialmente rifiutandosi, dopo ben un decennio dall’esplosione del fenomeno, di osservarlo e di rappresentarlo al centro di racconti lunghi. Siamo di fronte a un insistito rifiuto, da parte della cultura ufficiale, di riconoscere la rilevanza sociale, e dunque anche culturale, di un fenomeno che interessa milioni di Italiani, nient’affatto relegabili nella sola fascia adolescenziale. Anche il nostro cinema d’autore, quando si è occupato di reality, lo ha fatto di traverso per sottolineare il disprezzo verso questi programmi cult, poiché si tratterebbe evidentemente, per autori e registi, di una sorta di droga nazional-popolare abietta e alienante, della quale non vale la pena di raccontare al centro delle cose, e non si capisce il perché (v., tra gli altri,Tutta la vita davanti, di Paolo Virzì). In questo contesto per molti versi assurdo, che si distacca dalle letterature di altri Paesi, il merito di Giuliani è di avere preso, come suole dirsi, il toro per le corna, e avere deciso di ambientare un intero romanzo dentro a un reality show, immaginario ma realistico, de-mitizzato eppure penetrato nella sua ragion d’essere. Per fare questo, il Nostro ha preso due decisioni di base, che informano l’intiera narrazione di Turpe diva. La prima è quella di portare all’estremo, cioè al parossismo, i vizi e i vezzi dei reality, quali la ricerca dell’eccellenza, la recitazione non professionale del quotidiano, il sesso tra la convivenza forzata e l’effetto vacanza e da ultimo l’esibizione del medesimo come strumento di attenzione (morbosa e guardona) dei telespettatori. La seconda chiave di volta adottata dall’Autore è, a ben pensarci, correlata e consequenziale al contesto prescelto, e al suo voluto paradosso enfatizzato. Ci riferiamo al linguaggio della narrazione, il quale non poteva, per forza di cose, essere tradizionale, perché sarebbe suonato coccio. E allora esso si è fatto disincantato e turpe, addossato al parlato anche fuori dal discorso diretto eppure giammai adesivo ai personaggi con le loro maniacalità da reality e da pregressa vita routinaria. E’ un linguaggio giovanile e schiacciante, quello del Nostro in Turpe diva, sardonico e ribelle, fatto di doppi sensi e di picchi e rinunce, come la vita dei postmodeni quali tutti siamo per epoca di vita. Eppure lo stesso Autore, col suo precedente romanzo (Avvocati maledetti, Fazi editore), ci aveva dimostrato di sapere tenere la penna in mano in tutt’altro approccio. Il che testimonia, se mai ce ne fosse bisogno, che nel caso del romanzo in rassegna la lingua è l’esito di una ricerca e di una volontà ben ferme, che noi reputiamo pienamente adatte all’occorrenza e davvero efficaci nonché pungenti al punto giusto. Tutto questo fa, di Turpe diva (come già di Avvocati maledetti ma forse più), un romanzo da leggere e gustare con l’aroma della verità presente, con le sue manie e le sue perversioni e i suoi vizi assurdi. Una verità portata all’estremo, eppure fatta della stessa pasta quotidiana di cui siamo fatti, con le nostre insulse e risibili passioni. Di Umberto Vals
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