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Recensione Truman Capote

Truman Capote

Musica per camaleonti

Truman Capote Musica per camaleonti
Truman Capote Musica per camaleonti

Melomania di rettili, con tanto di assenzio nei Carabi, eppure non è magico jazz


(su Truman Capote, Musica per camaleonti)


 


- di Federico M. Giuliani ([1])


 


Cominciamo con quelle che potrebbero dirsi talune questioni preliminari, prosaiche negli scritti quanto altre mai, e tuttavia non trascurabili né prive di - almeno possibili – corollari estetici. Diciamo subito, allora, che Musica per camaleonti, nell’assai graziosa edizione italiana Garzanti del 2004 (con Marilyn Monroe in copertina e la traduzione italiana di Maria Paola Dèttore), non risulta essere al momento disponibile presso l’editore. Quelli che, perciò, potremmo denominare i nostri ”rettili melomani” - per chi non li abbia già, come vivaci ospiti, sui propri scaffali – sono attingibili, fra l’altro, da Capote, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano (collana dei Meridiani), a cura di Gigliola Nocera (con un saggio di Alberto Arbasino), sesta ed., 2008 (questa sì disponibile).



Aggiungiamo subito che il libro – il quale, come noto, è una raccolta di racconti uscita per la prima volta negli U.S.A. nel settantacinque (con una colorita copertina di Random House e di cui si trovano ancora talune copie originali tra i rare books) – è scandita lungo tre diverse sezioni: una prima parte, eponima, che è composta da sei brevi racconti; una seconda parte, che è poi il nucleo centrale del tomo, la quale è costituita dal romanzo breve Bare intagliate a mano (cronaca vera di un delitto americano); e poi una parte finale - Ritratti dialogati - che è quella in cui si addensano alcune apparenti para-sceneggiature, con tanto di semi didascalie parentetiche in corsivo, le quali molto hanno contribuito, insieme al suddetto romanzo breve e al brano d’abbrivio eponimo, a rendere celebri questi racconti.


 


Non manca di un certo quale acidulo cinismo, questa letteratura sui generis, tutta segmentata, come lima per femminili unghie dipinte - altezzose e insieme rovinate -, dell’eclettico scrittore di New Orleans: <> (Mojave); <> (ibidem); <<è più naturale che un cavallo contenga sterco di cavallo più di un uomo, per quanto grande sia la capienza di questo>> (Ringraziamenti notturni ovvero le esperienze sessuali di due gemelli siamesi); <> (ibidem); <> (ibidem).


Sotto l’aspetto geografico, l’ambientazione è variegata, ma per lo più collocata nel sud est degli States, con una New Orleans la quale torna sovente senza particolari coloriture jazzistiche, e un ricorrente paesaggio di provincia, ricercato proprio in quanto di per sé negletto (a esso si contrappone poi, come d’improvviso proprio in apertura, un quadro di rara e breve, caraibica, stravaganza: ma su ciò torneremo infra). In tutto questo Capote non è mai un paesaggista, come forse ci si potrebbe attendere pensando al suo giornalismo (é tutt’altra cosa rispetto a un Joseph Roth, giusto per chiarire il senso di ciò che si vuole significare): se cioè, spesso e volentieri, da sempre il linguaggio settoriale di quella carta, che dicesi per sua natura stampata sull’acqua corrente, deve per forza di cose descriverle, le cose, sembra invece che al Nostro, piuttosto che i colori e i contorni dell’oggettistica, interessino le persone – dunque le “maschere” - e i loro tic nervosi, le distorsioni comportamentali e le devianze.


E’ disidratato siccome ricercato – fors’anche un poco dopato, eppure calibrato - l’incedere stilistico di Capote. Ma non è una vera e propria sceneggiatura preconfezionata, anche quando si presenta – dicevamo per lo più nella terza parte – in forma di dialoghi-interviste: questi infatti non sono, a parer nostro, lavori filmico-televisivi sotto mentite spoglie (à la primo Grisham, per esempio); e ciò in quanto le para-didascalie, non di rado, si perdono in autentiche digressioni, contraddistinte da una compiaciuta involuzione - il che accade anche quando, con un gioco di specchi, ad avere le battute, fra gli altri, c’è proprio lui: <> (Bare intagliate a mano o Una giornata di lavoro; Salve, sconosciuti, oppure Giardini nascosti; e ancora Una bellissima bambina, la quale poi è altri non è se non, tanto notoriamente quanto esplicitamente, Marilyn Monroe, donde la suddetta copertina di una edizione italiana del libro).


Quanto al breve romanzo centrale – cioè, si diceva, Bare intagliate a mano -, va detto che esso sembra cronaca nera astutamente rielaborata, come lo può essere e lo è una detective story dipanata tra nicotina liquida mischiata al Maalox e, sempre a scopi omicidi, eccitante anfetamina iniettata sotto la cute di serpenti già per loro natura aggressivi, piazzati nel sedile posteriore di un’automobile; nondimeno, il tono e l’incedere non sono né del classico misterioso-noir (che finirebbe con il rifare ineluttabilmente il verso a Poe), e meno che meno quello tipico dei thriller writers.


Alle volte, lo squarcio ambientale si colloca in quell’arena novecentesca, assai nota all’Autore, che è la Grande Mela, così come accade nel penultimo, già ricordato, racconto, dove la Monroe e Capote dialogano in stile vagamente demimonde, nel mezzo della stagione intirizzita sullo Hudson, mentre nevica pesante e si fa gossip in una di quelle lunghe parentesi citate: lì, come al solito, non s’indugia sui particolari descrittivi, per tagliare invece sugli esseri umani tutti burattineschi (il corsivo pare giammai arrestarsi, e allora la para-didascalia si fa racconto nel racconto: Proust qui anzitutto, sebbene per lo più idealmente, docet; e lo fa anche Faulkner, diremmo più di James).


E perché mai - viene allora da domandarsi - gli scrittori americani, quand’anche come Capote non fanno letteratura come sceneggiatura già pronta per l’uso, tendono sempre, quanto meno, a para-sceneggiare? Forse perché – verrebbe da rispondere – essi sono una giovane congregazione caparbiamente audace, narcisistica e votata allo spettacolo, coonestata da una sorta di consustanziale realismo, il quale a sua volta tende sempre a dire, piuttosto che a speculare. E pur tuttavia, a una simile prospettiva si potrebbero subito contrapporre le pagine di un McCarthy piuttosto che di un De Lillo:  eccezioni, queste, che confermano la regola (un po’ come dire che Borges, nonostante le albe di Buenos Aires, col suo costrutto formale babilonese dà vita a una scrittura più europea che sudamericana, lontana alquanto, per esempio, da un Marquez; un po’ come dire, in altre parole, che si può essere ben radicati in America ma non vivere artisticamente sotto l’influsso, quasi ossessivo, della produzione teatrale o cine-televisiva - sebbene non manchino quasi mai, oltre oceano, gli adattamenti cinematografici, che attingono un po’ ovunque).


Sono, quelli della Music for chameleons, lacerti di una esistenza corrotta come un frutto tropicale lasciato andare, sovente adatti ai cultori professionali della cronaca criminale. Eppure ivi non mancano certi guizzi quasi inspiegabilmente sofisticati, come nel racconto eponimo, dove saltellano i rettili cangianti, curiosi ai tocchi dei quarti di tono di un pianoforte a bordo del Caribbean sea, dove si beve non gia whisky solo né tanto meno corona sale e limone, ma tutt’al contrario baudeleraino assenzio. Sembra quasi che, in questo genere di tagli a sguincio, il Nostro alluda sornione ad altri scrittori del suo Paese (Fitzgerald in primis); e ciò all’interno di un pastiche per un verso giocato e occultato, e per altro verso piuttosto articolato.


Fatto si è che nell’intercapedine di questi racconti – senza stare scolasticamente a farne l’inane cernita – rimane sempre, alla radice delle parole scritte e della pagina, l’esito di una reiterata ricerca dello stile, la quale non a caso è confessata dall’Autore nella prefazione al libro. Quel che ne sortisce suona come un taglio estatico quasi burlesque o dark cabaret, allusivamente “spostato” e ritratto a spezzoni su di un umano sottobosco obliquo, spesso alticcio (anche qui Fitzgerald è molto nell’aria) e altrettanto spesso già morto (nel che Poe si fa inevitabilmente sentire “dietro le quinte”).


Pare quasi, questa foggia narrativa, un chiacchiericcio stravagante. Pur tuttavia, esso è sempre conservato (e qui, per vero, secondo noi sta il nocciolo della questione) all’interno di binari sociali giammai divelti fino all’imo, ma al più distorti in una pantomima di blando parossismo.


C’è sempre qualche bicchiere di troppo, sì, e qualche pasticca o comunque qualche sostanza venefica, in circolazione; c’è anche qualche cadavere di troppo,  per potersi dire che di vita borghese si dice (non a caso le atmosfere sono sovente improbabili). Ma la – appena sfiorata, e così forzosamente evocata – perversione implicita, è realistica e parlata quanto allusiva/elusiva e zoppa. Non si osa, cioè, quanto ci si aspetterebbe; e il labor limae non che basta a colmare questo vacuum.


Che poi la critica ci dica di meravigliosi ritratti mondani (cfr. Luca Pacilio), ovvero di magistrale mimesi di una certa vita sociale, plasmata con lo stile inconfondibile del macabro descensus ad inferos (cfr. Antonella Fontanella), rimane cosa a sé stante, tutto sommato condivisibile. Ma – credo valga la pena il ribadirlo - siamo già a metà degli anni Settanta quando questa Musica esce negli States; sì che, in termini decostruttivi (anche se non decostruttivistici), ci si attenderebbe un quid pluris, specie da un Autore il quale, oltre a essere stato amico di gente come Vidal e Williams, organizzò quello che taluno ancora oggi definisce <cool del secolo>> - black & white dressed - al Plaza Hotel di New York nel bel mezzo degli anni Sessanta.


Qui non si nega certo che si facciano leggere assai volentieri, queste storture forzatamente ricercate del Tru(e)man (show): quali, appunto, l’assenzio e i camaleonti al pianoforte in Martinica; o le mini-bare consegnate a domicilio con tanto d’istantanee annesse, mortifere queste per tutti i destinatari. E si sorride con sarcasmo ai bicchierini sessuali del racconto di Mojeve (una contradictio in adiectus troppo vetero-americana, però); così come si scorre curiosi il fuggevole, di per sé potmoderno, accenno alla malattia dell’ansia contemporanea ancora nelle Bare intagliate. Né ci sfuggono le decine di bottiglie gettate a mare, coi martini ingollati prima di andare ufficio, in Salve, sconosciuto; non può d’altronde passare inosservata, sol che non si sia davvero ottusamente provinciali, la magia quasi rubata, tra metri di ghiaccio e il rouge del Cremlino, all’hotel Metropol di Mosca (E poi è successo). E, ancora, risulta azzeccato l’assunto secondo cui, tra bene e male, è semplicemente bene tutto quel che accade e dunque tutto è bene comunque finisca (ibidem). In chiusura, poi, accarezziamo con malcerta delicatezza una “sballata” Marilyn nell’addensamento come immobilizzato di Manhattan, con la città degli angeli evocata, from coast to coast, al pari di una <> (ancora Una bellissima bambina). E’ assai gradevole, del pari, l’autobiografismo esplicito di un Capote, quando egli scrive che tutti i veri conversatori non sono affatto monologanti à la Wilde, bensì anzitutto ascoltatori eccellenti (Rigiramenti notturni ovvero le esperienza sessuali di due gemelli siamesi); e significativo è altresì (senza pretesa alcuna d’essere qui esaustivi) quel tonico apprezzamento rivolto a Yukio Mishima (ibidem).


 Non vediamo, però, le call girls con le piroette, non soltanto corporee ma anche chimico-esiziali, né gli ammennicoli di quel decennio e della mascarade che Truman vuole (o forse dovrebbe, stanti le premesse e promesse realistiche) fare sua in arte, se non in vita. Non vi è cenno alcuno, con un distacco di sapore snobistico, del timbro ambientale di quel rock’n’roll rovinoso con cui i Seventies si aprono (v. Hendrix e Joplin, Brian Jones e Morrison) per poi continuare. E non vediamo, d’altronde, un’atmosfera davvero disfatta, vecchia e nuova, tra diversioni e alterazioni, ville o grattacieli, lussuosi alberghi o psichedelici motel, soldi infetti e crimine più o meno organizzato, né stupido squallore - la sordidezza – in uno scavo profondo che non c’è. L’impressione è quella di una peculiare forma di sostanziale custodia, la quale cerca magari di appoggiarsi all’eleganza fitzgeraldiana per trovare, in modo esteticamente rassicurante, l’afrore vago delle deviazioni di percorso, senza perdere però l’autorevolezza di un classico connazionale.


Non vorremmo così che, a proposito di Capote, parte della critica sia incorsa, almeno parzialmente, in una sorta d’infatuazione eccessiva, confondendo la bacchetta magica degli autori rari con questi cahiers recanti una copertina ben nera e scamosciata all’esterno, ma una carta troppo sbiadita – prosaica a ben vedere, e nemmeno gialla – all’interno: un po’ come se si perdesse di vista – che so? – la differenza che intercorre fra il ricordato Francis Scott (sublime come gli anni sempre rimpianti, siccome aperti sul tutto e in ciò irripetibili) con un nostrano Andrea De Carlo, capace sì ma pur sempre ottimo allievo (peraltro dichiarato) del Calvino “americano”.


Non vorremmo, insomma, che si glissasse, a proposito di questa musica per rettili, su ciò che diremmo un semi minimalismo anticipato, contratto però in punto di autenticità della chute, la quale è bensì più intrinsecamente statunitense di quanto prima facie si possa reputare. Non vorremmo che si confondesse, distrattamente o volutamente, una mascherina da party di Manhattan con quella casanoviana, esportata nel suo barocchismo fino a San Pietroburgo in fiacre. Non vorremmo che si fraintendessero certe cose tra loro diverse, facendo per esempio un tutt’uno tra l’anticonformismo astutamente ingranato da una parte e dall’altra parte la sofisticazione (per sua natura post barocca, appunto) nella debaucherie, il primo restando improntato sui toni di un contro-pudore rapsodico e monocorde – sempre un po’ edulcorato e ammiccante -, e la seconda per parte sua non essendo stata ancora, pur nel 1975, consumata e consunta in toto dalle arrampicate e dagli smottamenti della generazione perduta. Che ancora molto – e di più velenoso - vi fosse da dire, nella direzione del bello che sprofonda a metà degli anni Settanta - e giusto in un contesto agrodolce propriamente anglo-americano -, sarà più avanti chiarito più esplicitamente (sebbene basti pensare, fin d’ora, per esempio a una Tama Janowitz).


 


Così esaurite le prosaiche annotazioni d’abbrivio sui melomani rettili, passiamo a una più autentica critica di questi amanti di semitoni e colori, con le loro cadenze  francofile e il loro absinthe.


Se fu Robert Redford a interpretare, nel settantaquattro, il mito di Jay Gatsby, più di un decennio prima il ruolo dello scrittore da strapazzo Paul – il mantenuto di Breakfast at Tiffany’s – fu affidato a George Peppard. Furono due scelte attoriali, queste della produzione statunitense, diversissime tra loro, e pure non tanto dettate dal semplice scarto d’anagrafe fra i due uomini di spettacolo e dallo spazio cronologico intercorrente tra le rispettive lavorazioni filmiche, quanto piuttosto imposte da ragioni più essenziali. Ai temi, cioè, classici di “Fitz” (muore giovane, dopo una vita apicale, chi è caro agli dei), perfettamente corrisponde l’attore WASP per antonomasia, l’angelo caduto sempre sospeso tra cirri e mortali, colui al quale in scena non serve parlare, poiché basta esserci. In guisa opposta, con una certa inestricabile similitudine, le pagine secche e materialiste (ma non materialistiche) di Capote dovevano necessariamente evocare una recitazione più algida e di più blando spessore, cioè a dire essenzialmente meno romantica e di minore qualità rappresentativa (la stessa de L’uomo che non sapeva amare). Che cosa vogliamo dire? Che la fitzgeraldiana postergazione ad libitum delle atmosfere universitarie unite al senso della rovina - umore e tremore di ascendenza prettamente British - evoca, sebbene col senno del poi, testi come il delizioso Briteshed revisited di Evelyn Waugh; e perciò il protagonista maschile de La mia Africa cinematografica (dove egli sovrasta persino un Brandauer da Golden Globe) era - ed è - la maschera perfetta di  Francis Scott e non di Truman, poiché l’Irishman di Santa Monica è molto più “europeo” di quanto non lo siano Capote e Peppard messi insieme: ciò è vero non soltanto in ragione dei suoi trascorsi pittorico-giovanili (un poco trasandati) in quel di Parigi, ma anche, e soprattutto, per il suo stile recitativo sommesso, introverso e sottile - sovente mutato in autoironia  o nostalgia - e per il suo essere attore antimodernista, capace di fare coincidere l’arte con la vita. Se dunque in Redford c’è molto sapore vetero-continentale - come in Fitzgerald e in Hemingway o in Henry Miller -, invece sul viso e nelle movenze di Peppard, così come nelle pagine di Capote, quella cert’aria aura dei <> (che ci si aspetta invano da Music for Chameleons così come da Breakfast at Tiffany’s) non ha mai trovato alloggio.


Non a caso Capote, anche quando prova a rievocare il (peraltro anche suo) macrocosmo fatto di cineprese e telecamere americane (v., di nuovo, Una bellissima bambina, ma diremmo tutta la terza parte del libro), lo fa in essenza - cioè oltre la patina delle parole - senza poesia malinconica, diremmo anche senza languore. Per lui gli autori di copioni non sono vessilli di vita, né i produttori ristanno sullo sfondo dell’irraggiungibilità mitologica; la stessa Monroe, interrogata sul punto, anodina compara tra loro prestazioni virili del jet set, mentre Miller (non il di lei marito, ma l’autore dei “Tropici”) aveva già dato alle stampe da lustri i suoi capolavori (essendosi per i quali tratta la linfa, non a caso, da quella prima scuola di debaucherie, che resta la vecchia Senna prima del travolgente Missouri).


Ecco perché, a una bitter page di Capote - incapace di essere su di sé ripiegata -, si adattava appieno, per il Blake Edwards della Colazione da Tiffany, l’iride peppardiana senza pathos; mentre il ricordo struggente di una gioventù tenuta sulla punta delle dita – quella sorta di climax proprio dell’Age of jazz - a Coppola e Clayton, mentre erano alle prese con il loro Gatsby, non poteva che fare venire in mente il Sundance Kid.


Ecco perché la capotiana musica per i rettili non è (e non sarà mai) – diciamo noi - magico jazz, nonostante il paradosso di un autore che proviene da New Orleans, e nonostante i semitoni al pianoforte sul mar dei Carabi.


 


So che si obietterà, acutamente e autorevolmente, che Capote, al pari e forse più del marito di Zelda, si è rovinato con gli stimolanti più vari, e che tutto ciò trasuda dalle sue pagine (cfr. Alberto Arbasino). Ci si obietterà altresì che sono brani, quelli di Truman, stilisticamente elaborati nella loro secchezza e semplicità solo apparenti (Capote non è però nemmeno un autentico chirurgo della scrittura come Moravia o Calvino, si potrebbe contro-replicare). So che si opinerà altresì che i racconti dell’autore di Other voices other rooms sono distillati cristallini e struggenti (cfr. Giorgio Montefoschi), e che il piglio sardonico di Capote manca del tutto in Tender is the night e opere affini. So, ancora, che si aggiungerà che la a-moralità di Capote è non solo cronologicamente, ma anche artisticamente, “oltre” gli esibizionismi semi onanistici di un ormai logoro Scott (pestaggi inclusi a chi, un po’ troppo su di giri, finisce con il mettersi nei guai nelle pagine dello scrittore “pittsburghiano” di Saint Paul). So che si rileverà questo e dell’altro: cioè che il ritmo delle sceneggiature accomuna i due scrittori, e che, sovente e volentieri, i racconti di Music for chameleons sono velenosi e viziosi, e languidamente tossici come la nicotina; e si aggiungerà che lo stesso Capote elogia apertamente proprio Scott Fitzgerald prima di altri, subito dopo avere liquidato se non stroncato finanche l’autore di Addio alle armi (v. supra). Certamente si potrà alfine osservare che, negli anni Settanta - allorché uscirono allo scoperto, dopo lunga gestazione, i rettili melomani -, non si poteva certo persistere nell’evocare a oltranza, quasi  febbrilmente, l’epoca bella e dannata nella sua versione atlantica prima e dopo il crack di Borsa - perché quel mondo, si dirà, era già nei Seventies un emerito rottame, pronto per lo sfasciacarrozze. Per converso si annoterà che il milieu del composito giornalismo investigativo di Truman, con i suoi drinks e i suoi detectives dispersi in quella semi-sordida aura d’amore e morte appena sfiorate, è per noi contemporanei un che di assai più limitrofo.


E’ tutto vero.


Ma restiamo del parere che, se uno scrittore statunitense vuole evitare alla radice certi paragoni, non si mette lungo la strada letteraria di una certa quale perdizione. E restiamo altresì del parere che Capote non assurga a una delle vette della letteratura statunitense del secolo scorso, e dunque della letteratura tout court, come si tende invece a ipotizzare in modo corrivo. Del resto, se proprio Musica per camaleonti è reputato essere il capolavoro del Nostro (cfr. Antonella Fontanella), allora a maggiore ragione pare eccessivo il fatto di collocare quest’ultimo nel firmamento letterario in quanto tale.


A Capote, di sicuro, il vuoto di lirismo non interessa per nulla, dacché anzi trattasi di una mancanza per lui dovuta, cercata con puntiglio (con gli sforzi della <> reiterati a tavolino, sol che si legga la prefazione della Musica in parola). Si vede, in altre parole, che la ricerca dell’auto-elogiato stile di questo scrittore attinge proprio all’impoetico: cioè semmai al reportage piuttosto che alle crime news, alla perdita dell’innocenza come possibile indagine sociale piuttosto che ai brogliacci di scena e a certa crudezza comportamentale. Ma tutto ciò, pur facendosi stile piuttosto originale, non rompe nessun argine o barriera socio-culturale, né tanto meno rappresenta, a parer nostro, un oltrepassare artistico dentro l’effettualità del contesto (meno che meno poi, sebbene a nulla ciò rilevi, uno scavallamento esistenziale).


Basti il pensare, a riprova di ciò, che in termini di temperie culturale – come già ricordato – Music for chameleons è del settantacinque, mentre per esempio Arancia meccanica – visto che Capote ammicca, se pure a modo suo, all’ultima musa - è del settantuno, e Blow-up già del sessantasei. Sempre in tema di coevo clima anglo-americano, va detto che, con il suo rock decadente, Lou Reed pubblica in vinile, fra il settantadue e il settantacinque, qualcosa come Transformer, seguito da Berlin (ancora Europa, non a caso), Rock & Roll Animal e Sally Can’t Dance. Viene da domandarsi, intanto, dove fosse Capote, dopo la sua <>. Vi è da chiedersi dove stesse la sua attenzione quando, fra tutto il resto, tre anni prima dei suoi rettili danzanti, sugli scaffali delle librerie americane un certo Bukowski aveva già fatto saltellare – oplà - le sue Erections, Ejaculations, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness, le quali non potevano passare inosservate né essere trascurate (tacciamo, poi, del glitter rock inglese e delle relative produzioni di quegli anni, peraltro collegate al binomio Reed-Warhol: Bowie in primis). Ma – ci si domanda - Capote non doveva essere un prototipo dell’esperimento scritturale? Non doveva essere capace di trasporre, in modo peculiare sulla pagina, la propria autodistruzione?


Né si dica che, con questo e/o quel rock, la Music for Chameleons nulla ha a che vedere, perché intanto giusto di “musica” sempre trattasi, e inoltre quel filone che prese le mosse dai Velvet Underground di Warhol/Nico e di Reed/Cale, fu un fenomeno anche di testi e di atmosfere (che poi Truman sia stato sodale di Andy, nulla significa sul piano del raccontare).


Eppure, nonostante una siffatta situazione comparata di temperie limitrofa, Musica per camaleonti continua a essere vista quale l’epopea di una specie di ribelle rovinato, il quale, dopo immani sforzi auto-imposti, seppe trovare la parola raffigurativa di una certa mondanità: una sorta di novità dirompente, per lo meno di nicchia, se non addirittura di respiro e portata  internazionale.


In questo stesso angolo visuale, si fa notare che Truman porta dentro di sé un bagaglio di letture di tutto rispetto, in parte elogiato dal medesimo nella Musica (come Flaubert e Proust, Woolf e Blixen, Faulkner e Forster e Greene), e in parte da lui, in quelle stesse pagine, criticato (come Kerouac e Chandler, Vidal e Wolfe). Peccato però che, per uno scrittore, ciò sia un po’ come l’alfabeto; d’altronde, non basta avere collaborato con De Sica e Huston, né avere inventato il gossip letterario in televisione, per potere legittimamente assurgere a capostipite di una maniera di fare letteratura - perché di questo passo Mordecai Richler  (la cui Barney’s version, non a caso, è del ‘77) diventerebbe un Dino De Laurentis proustiano.


Insomma, a noi pare proprio che, quanto a Music for chameleons e a Capote, ci si trovi al cospetto di un’opera, e di un Autore, eminentemente sopravvalutati. Che poi una certa critica letteraria, anche europea e italiana, abbia fatto colare giù, quasi come ipnotizzata, la benzina su di un fuoco già soffiato dalla pompa affaristica statunitense - parlando di uno dei massimi scrittori novecenteschi, e dunque perdendo di vista certi possibili raffronti -, è un fatto ormai storico nel senso di consumato, sulle cui ragioni mette conto di non indagare oltre.








([1]) LL.M., scrittore e saggista milanese. (Tra i suoi lavori letterari Decoro del buio, Forum Quinta Generazione, Forlì, 1987 [poesie]; Solo a fine estate, Forum Quinta Generazione, Forlì, 1993 [idem]; Un Amleto da trani, Libroitaliano World, Caltanissetta, 2003 [idem]; Stucchi; Aletti, Villalba di Guidonia, 2009 [idem]; Avvocati maledetti, Fazi, Roma, 2002 [romanzo];  Turpe diva, La riflessione, Cagliari, 2009 [romanzo].)

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