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Recensione Mario Fresa

Mario Fresa

L’eterna domanda della poesia - Intervista con Mario Fresa

  Una delle attività più feconde per un lettore che cerchi, nella copiosa produzione poetica dei nostri giorni, lavori validi e originali, è quella di scartabellare antologie e libri di autori che si muovono a ridosso delle grandi aziende editoriali e dei loro standard ormai non più indicativi. Uno degli autori più interessanti dell’ultima generazione, a mio avviso, è Mario Fresa, giovane poeta nato nel 1973 a Salerno, dove vive e opera, scavalcando con la sua creatività i limiti geografici che spesso impongono, ad autori ed editori che lavorano nel Mezzogiorno, di essere considerati come forze minori e destinate il più delle volte a un forzato localismo. Fresa ha esordito nel 2002 con la raccolta Liaison preceduta da una bella introduzione di Maurizio Cucchi, seguita da L’uomo che sogna (2004), La dolce sorte (2005), Il bene (2007), Alluminio (2008, edito da LietoColle, con la prefazione di Mario Santagostini), accompagnando sempre il suo lavoro di poeta a una accorata riflessione critica, come nel bel saggio in forma dialogica Il grido del vetraio, scritto a quattro mani con Tiziano Salari. Suoi versi e prose poetiche sono inseriti nell’antologia Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) e nell’Almanacco dello Specchio (Mondadori, 2008), oltre che in riviste specializzate come «Paragone», «Nuovi Argomenti», «Caffè Michelangiolo», «Gradiva». La sua è una ricerca poetica ‘corale’, ricca di voci e personaggi onirici ma al tempo stesso appartenenti al corpo mortale della materia. Mario Fresa sfida il confine tra questi due ambiti profondamente umani, quello metafisico e quello terrestre, con risultati spesso sorprendenti per densità e verticalità metaforica.



Montale diceva che la poesia «è ciò che rimane quando tutto il resto è scomparso». Sei d’accordo con questa definizione? Cos’è la poesia, secondo te?

«La poesia è il risultato di una visone estrema: essa si verifica allorquando, eliminata dal nostro sguardo quella che Michelstaedter ha chiamato la rettorica, ossia l’illusione e la falsità che accompagna la maggior parte dei nostri pensieri e delle nostre azioni, noi ci abbandoniamo a quello che resta dell’esistenza, cioè alla sua effettiva sostanza: ovvero alla dura scorza, al fondo del suo precipizio, scevro dai sogni, dai progetti, dalla meschinità dell’approccio egoistico e soggettivo. La poesia è l’avverarsi di un tale sguardo radicale, che fissa per un istante il senso più profondo e accecante dell’esistenza. Per questo è necessario far scomparire “tutto il resto”, ovvero la patina illusiva della vita intesa come un essere-per-desiderare. Il senso della poesia, infine, è nel seguente paradosso: pur mostrando la vita nella sua totalità, essa continua, ossessivamente, a porre una domanda: “che cos’è l’esistenza?”».

La poesia, in Italia, sembra sempre più un genere di conforto e di lusso. È difficile scriverla, difficile da vendere, difficile da collocare. Come ti poni, come autore, di fronte a questa situazione?

«La logica del mercato non può e non deve interessare la scrittura poetica, che non ha niente da spartire con la letteratura “di consumo”; direi anzi, in modo più radicale, che la poesia non ha niente a che fare, in generale, con il concetto “letteratura”. Essa è di difficile – direi di impossibile - collocazione perché il suo coincidere con la stessa esistenza le preclude la possibilità di una definizione univoca. Ogni definizione tende all’impoverimento e all’assoggettamento; se la poesia dice la vita, come possiamo rinchiudere il senso della stessa vita nella gabbia di una definizione che possa “collocarla”, cioè limitarla? Lasciamo le questioni salumieristiche – il “vendere” e il “comprare” – a ciò che rientra nelle necessità biologiche dell’uomo mediocre. Il discorso poetico non c’entra nulla, per fortuna, con la volgarità di una visione utilitaristica o pratico-finalistica. Certo, la poesia è un lusso: e ciò è un bene; parla a quei pochi che sono chiamati a intenderla. La questione della pubblicazione e le implicazioni di carattere commerciale non hanno nessuna importanza. Quanto alla “difficoltà” della scrittura (e, va da sé, della stessa lettura), essa è l’effetto dell’inevitabile complessità di quella coincidenza, alta e terribile, che vede strette insieme la parola e la vita, la poesia e l’esistenza».

Ci sono degli autori contemporanei che stimi particolarmente?

«Vorrei citare due maestri-amici dai quali ho imparato molto (non solo nel campo della scrittura poetica, ma anche da punto di vista etico e umano): parlo di Maurizio Cucchi e di Tiziano Salari».

I poeti sembrano essere sempre più delle monadi, sganciati dalla storia e dal proprio tempo. Questo produce un certo spaesamento e una difficoltà insormontabile nel giudizio critico. Cosa pensi di questa situazione così polverizzata e minimale?

«I poeti sono monadi perché malati di solipsismo e poco interessati al dialogo e al confronto. Ognuno, purtroppo, sembra lavorare per se stesso o all’interno di un gruppo auto-referenziale che agisce, spesso, in aperta contrapposizione contro altri gruppi altrettanto auto-referenziali. Di questo passo, né i poeti né i critici potranno iniziare a tirare le somme, in modo veramente obiettivo e fruttuoso, in merito ai risultati della poesia degli ultimi decenni. Ho fiducia, però, nelle nuove generazioni: avverto, in esse, un senso di attenzione costante e – per fortuna – un ritorno alla lettura, ovvero a quella fonte irrinunciabile che sempre dovrebbe riguardare il lavoro di un poeta; più ancora della stessa scrittura».

Stelvio Di Spigno

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