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Recensione Già nella sua precedente silloge “Poesie per ricordare” (La riflessione, 2008) Anna Amadori aveva trattato dei tre temi cardinali di ogni esistenza, con l’amore che è tormento e passione, con le grandi domande senza risposte certe concernenti la vita e con l’inevitabile conclusione della stessa, quella morte che tutti ci accoglie, quasi beffarda per la nostra incoscienza e alterigia che ci può indurre ad esserle superiori. In questa nuova raccolta ritornano questi temi, ma con una visuale diversa, quasi un’analisi dei risultati dell’evoluzione della specie, di questi minuscoli esseri che credono di essere sopra ogni cosa e che finiscono con il diventare così carnefici e vittime di un’illusione irrazionale che mortifica, anziché esaltare, l’esistenza. Come precisa l’autrice nella sua prefazione l’umanità è diventata così muta e fuggente, cioè isolata e prigioniera della sua condizione. Il progresso e l’evoluzione hanno cambiato con i sentimenti anche il senso della vita di ognuno di noi, ci hanno indotto a credere che la scienza ci possa consentire di essere speciali e avulsi dalla realtà naturale, che inquadra ogni essere vitale in un disegno dal delicato equilibrio, minato dalle inevitabili conseguenze di ordine materiale e, soprattutto, comportamentale determinate dalla nostra assurda idea di predominio. E’ inutile illudersi che se si vive di più si possa vivere in eterno, è inutile credere che la nostra realizzazione di uomini sia nel metterci al centro dell’attenzione, di elevarci insomma quasi a divinità. Come il fiore che nasce e muore, anche l’uomo ha lo stesso percorso obbligato, con la differenza che il suo egoismo, l’egocentrismo a livelli esponenziali lo porterà a una morte in solitudine, chiaro risultato di un’esistenza inutile. Anna Amadori è ovviamente parte di questa umanità, ma la sua amara constatazione si accompagna a un autentico senso di pietas, virtù sempre più rara che la porta ad amare gli altri, indipendentemente dal loro comportamento, anzi a stringerli a sé quanto maggiore è la loro responsabilità di azioni e atti contro gli altri e inconsciamente contro se stessi. In particolare la poetessa tiene a che non si spenga il ricordo, cioè l’unica forma di perpetuare la vita oltre la morte, soffocato com’é da vanaglorie, egoismi e indifferenza, e al riguardo particolarmente esplicativa è la poesia iniziale, che dà il titolo all’intera raccolta, ma che è anche il filo conduttore della stessa (Muti e fuggenti - Muti e fuggenti / anonimi volti, / prigionieri di catene / da egoismo e vanagloria / saldate. / Simulacri atei / di loro stessi,/ vacui fantasmi / su dimenticati sepolcri.). Pochi versi, incisivi, senz’altro anche sofferti, ma non urlati, anzi percorsi da un adagio quasi mistico che è il riscontro della pietà che li ha ispirati. Ma se l’uomo con il progresso è cambiato, non ha saputo cogliere la verità che ogni scoperta svela (la nostra nullità, la nostra impotenza, la comprensione di essere piccoli ingranaggi in una macchina che mai comprenderemo), la natura è rimasta la stessa, e così gli animali e i vegetali, consapevoli forse inconsciamente della grandezza del disegno di cui umilmente fanno parte (Farfalla - Non ti dolere / amorfa crisalide / amaro abbozzo di farfalla, / le ali al mondo non / spiegasti ancora, / adorne / degli opalescenti colori. /…) oppure ( Gabbiano - Con maestoso volo / e plano d’ali, / t’è giocoso / burlar le rade / nubi / sfidando l’azzurro cielo. /…). E senza dilungarmi ancora, perché è giusto che chi leggerà possa scoprire piacevolmente versi particolarmente pregnanti, non mi resta, ovviamente, che raccomandare questa raccolta all’attenzione di chi ama la poesia, una poesia fatta a misura d’uomo, comprensibile, a tratti anche soave, eppur profonda. Di Renzo.Montagnoli
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