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Recensione Francesca Mazzucato Devo ammettere che a Francesco Giubilei, tuttora il più giovane editore italiano, non manca il coraggio, perché di questa dote, non frequente e spesso fraintesa, ne occorre non poca per pubblicare un cahier de voyage, o quaderno di viaggio, o libro di viaggio comunque lo si chiami. E’ infatti questo un genere che in Italia non ha mai avuto fortuna, a differenza che in diversi paesi esteri. Il lettore medio italiano ama poco viaggiare con la mente, magari prende una guida del Touring, ma poi la dimentica nel corso delle immancabili gite collettive, anche perché un cahier de voyage non è un semplice libretto pratico per orientarsi su cosa andare a vedere, dove dormire, dove mangiare, anzi rifugge da questi consigli spicci perché il suo intento non è di supporto logistico al viaggiatore, non è il Bignami di un paese, bensì è un’opera letteraria che ha l’occhio solo per la cultura. Da noi questi libri sono in genere rifuggiti peggio di quelli di poesia. Eppure sono opere di indubbia validità, ma tanto è la disaffezione per l’autentica cultura di una larga parte dei lettori italiani che questi cahier finiscono con l’essere negletti. Certo Giubilei avrà ben valutato i pro e i contro, e fra i primi il peso non trascurabile è dato dall’autrice, assai nota che, in questo testo, come poi si vedrà, profonde al massimo le sue qualità letterarie. Fra l’altro questo libro inizia una nuova collana, intitolata appunto Cahier di viaggio, diretta proprio da Francesca Mazzucato. Zurigo ai più potrà risultare una meta non particolarmente appetibile, probabilmente secondaria rispetto a Parigi, a Londra o a New York, ma l’autrice ha scelto questa località per compiere un viaggio dell’anima, per proporsi una serie di riflessioni, anche sentimentali, che non sempre sono direttamente collegabili alla meta. Certo c’è l’omaggio a Joyce, che lì morì e vi è sepolto, uno scrittore che deve avere rivestito un’influenza particolare sulla Mazzucato tanto che la visita della sua tomba finisce con il diventare quasi il suggello della fede di un pellegrino con il proprio santo prediletto. Peraltro, all’inizio del viaggio da Bologna in vagone letto, il barbone che sul marciapiedi del binario si orina addosso in completa indifferenza rappresenta la fine del quotidiano e l’inizio di quel progressivo distacco dalla realtà materiale che in itinere diventerà un percorso dentro se stessi, con le occasioni offerte da una città in cui muoversi per trarre spunti, far nascere idee, riflettere soprattutto. C’è tanta cultura in questo libro e non a caso i riferimenti a Joyce, ad Annemarie Schwarzenbach, a Canetti, a Chagall e perfino a Jung sembrano propiziati dalla presenza delle loro ombre in questa città svizzera di impronta tedesca. Ci sono piccoli spunti, in apparenza insignificanti, abitudini giornaliere con cui l’autrice cerca quasi un dialogo con il lettore, descrizioni che sembrano casuali di edifici, insomma tante pietruzze di un mosaico che non solo riescono a ricreare l’atmosfera di Zurigo, ma vengono a delineare, come nell’opera di un pittore, un quadro culturale che nobilita il libro, che è quasi la fusione di un diario con un romanzo, non di rado espresso con una prosa poetica. Resta da chiarire il perché del titolo e a questo provvede una piccola nota all’inizio, dove si dice che la romanza è una composizione musicale per voce e accompagnamento, di struttura variabile ma di carattere per lo più sentimentale. Ecco, in effetti il libro ha il ritmo di un lungo adagio in cui la voce dell’autrice si inserisce con una vena di lirismo, un violino di cui ancora sento il suono malinconico. La lettura è vivamente raccomandata. Di Renzo.Montagnoli
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