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Recensione Luana Trapè

Luana Trapè

Il cappotto bianco

 Luana Trapè si muove sia dentro la letteratura di testimonianza (Quel giorno fatidico - con Mario Dondero, Affinità elettive, 2007: un fatto della Resistenza nel fermano restituito dalla viva voce dei superstiti); sia in quella di finzione (il racconto lungo Da bambine, Greco & Greco, 2006). Nell’ultimo romanzo, Il cappotto bianco (Pequod 2008), unisce, per così dire , le due modalità. Tre lettere del 1876, rinvenute nella cartella di un paziente presso l’Archivio del manicomio di Fermo, assieme alla scarna documentazione sui motivi di un tentato suicidio, sono il filo su cui si snoda la storia d’amore, di coscienza politica, di sofferenza di due ragazzi, Luigi e Lucia, nell’Italia del secondo Ottocento, in cui chiusura, persecuzione, allontanamento del “diverso”, erano corpo unico. Maestro di provincia, lui, dalle idee innovative; lei, una donna di città, colta, volta all’emancipazione femminile.
Simili per sensibilità e ideali politici, entrambi vedono incarnati in Garibaldi sogni e ideali. E si scontrano con la mentalità, con i divieti di chi pensa che nel nuovo vi sia la catastrofe dell’ordine costituito. Da qui al Manicomio, per Luigi, il passo, sollecitato da ambienti clericali, è breve. Lucia affronterà, da sola, il dramma con intelligenza, passione e forza d’animo. Questo il canovaccio.
Luana Trapè lo disegna con le psicologie, le movenze concrete di situazioni interiori ed esterne, dentro un contorno che restituisce clima, atmosfere, attese, ferocia della repressione. E comprensione, affetti, apertura anche delle persone preposte alla “guarigione” dei sintomi della follia. Che, rovesciati, altro non erano se non la volontà, in chi li aveva ravvisati, della conservazione di poteri e potere da esercitare sui singoli e sulla comunità.

Maria Lenti
Marche domani 11/6/2008

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