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Recensione Sergio Sozi Sergio Sozi ha innati il senso e il sentimento dell’italianità, probabilmente ancor più vivo in quanto residente all’estero, in una terra dove, peraltro, esistono nostri numerosi connazionali che mai hanno perso la loro identità, e ciò nonostante guerre, spostamenti di confini e finanche diaspore. Non poteva pertanto rimanere indifferente alla situazione di un’Italia i cui abitanti hanno abiurato inconsciamente le loro origini, gettandosi, nel servilismo più totale e masochista, fra le braccia di altre civiltà, in primis quella americana. Siamo diventati così una colonia in cui scimmiottare gli usi di altri, i padroni, che invece assorbono da noi, adattando alle loro esigenze, le nostre ormai scomparse tradizioni culturali. Sozi, che è un cultore dell’italianità, della nostra lingua, della nostra letteratura non poteva restare indifferente a questa abdicazione di coscienza collettiva e ha voluto parlarne a suo modo, con la sottile ironia che gli è propria. Ha ideato, così, e scritto un romanzo fantastico, in una versione distopica, immaginando il nostro paese nel non così lontano futuro 2050. La visione catastrofica, di una nazione che non è più nazione, viene abilmente stemperata da un atteggiamento satirico, che muove anche al riso per le nostre disgrazie, e proprio per questo resta l’amaro in bocca. La scoperta di un diario del vecchio poeta Cesare Menicucci, ormai scomparso, offre all’io narrante, tale Lukin Philipucci, i resti archeologici di quella che fu una grande civiltà, estintasi nel 2003 quando venne chiusa l’ultima biblioteca italiana. Dopo quella data si entra in una nebbia letteraria, in cui predominano strani linguaggi, tutto fuorché l’italiano, e cessa la memoria, non tramandata alle nuove generazioni, con una perdita così dell’identità nazionale, ma anche della personalità individuale. Il nostro paese è ormai decaduto, spopolato, e nemmeno l’ombra di ciò che era. E’ forse superfluo che dica che la visione dell’Italia, effettuata a ritroso, sulla scorta di questo diario, in cui i versi di Menicucci scandiscono gli eventi, come fossero le portate di un vero e proprio menu, è quella, pari pari, che abbiamo sotto i nostri occhi, con una popolazione avulsa dalla realtà e che vive di apparenza, in cui ritmi e comportamenti sono scanditi da mode sì imposte, ma a cui ben volentieri ci si adegua, insomma una società di quasi decerebrati, in preda alla perenne convinzione che l’uso della mente sia solo compito di chi tiene le redini del paese. La struttura nazionale così si disgrega, con edifici fatti di cartapesta che crollano al primo sboffo d’aria, con un ricorso a una lingua diventata del tutto incomprensibile, anzi atta a generare ancor più confusione in gente non adusa a leggere testi di qualità, ma solo soporiferi romanzetti atti alla conservazione di uno stato di perniciosa indifferenza. E con l’incapacità di comunicare arriva l’impossibilità di tramandare ad altri, così che le origini e le tradizioni, tutto ciò che è cultura, viene ad essere dimenticato. Ma come è potuto accadere uno scempio del genere? Leggete questo “divertente” romanzo e lo saprete, con un’avvertenza, però: è vero che si tratta di fantasia, ma è purtroppo ben ancorata alla realtà. Quindi Il menù non è stato scritto solo per rallegrare, per far trascorrere bene qualche ora di lettura, ma è un monito preciso, affinché ci attiviamo per non ridurci come i futuri Lukin Philipucci. Ah, un’ultima annotazione: state attenti alla lingua in uso nel 2050, perché è una vera chicca. Di Renzo.Montagnoli
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