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Recensione Francisca «ha capito che esistono parole per i ricchi e parole per i poveri. Le une lette, scolpite, recitate e – soprattutto – belle, bellissime come cose che non sono di questa terra. Le altre lorde, bastarde e fetenti dell’alito di chi ha lo stomaco vuoto» La lettura di questo romanzo è stata particolarmente travagliata, perché pagina dopo pagina, pur interessato alla vicenda, non riuscivo a comprendere il motivo per cui il testo mi avvincesse, anzi diventasse via via parte di me. Di conseguenza, mi sono spesso interrotto, ricominciando ogni volta da capo, con una sensazione di attrazione inconscia che si rinnovava e che trovava puntualmente un’assenza di risposta alla domanda continuamente reiterata: perché? Poi, quasi per caso, nel corso di una ennesima rilettura, ho compreso che l’opera presenta più significati, ma che quell’andamento lento, quasi dolente, con le parole che sembrano le componenti di una processione non cristiana, ma eventualmente pagana - qualora si consideri la preminenza dell’elemento spirituale naturale -, era la rappresentazione del potere delle parole. Non si tratta solo di mezzo di comunicazione, ma di un uso dei vocaboli e dei verbi in una sorta di quadro mistico che recupera il valore fondante e immenso del linguaggio. La parola non diventa quindi solo mezzo, non è un oggetto, ma è un soggetto, la protagonista di un intero libro, con un personaggio, l’esposta Francisca, che avverte la suggestione della potenza delle parole, profonde, misteriose, evocatrici di un mondo sconosciuto quelle belle, quelle dei ricchi, e dozzinali, quasi dei grugniti quelle della povera gente. E allora impadronirsi di quelle belle, anche se non ne conosce il significato, per Francisca vuol dire evadere dalla dura realtà giornaliera e ascendere a un olimpo di cui tuttavia non ha coscienza. Le parole dei ricchi fanno sognare i poveri ed ignoranti che pensano che il motivo della loro agiatezza risieda in quella lingua così colta, così sovrannaturale, che ben si sintetizza nella litania di quel miserere ossessivamente ripetuto durante il sacco del convento. Per Francisca quei termini inusuali sono talmente importanti che finisce con il rubarli, con il sottrarre pagine del breviario, quasi che in tal modo potesse impadronirsi della ricchezza delle parole. E così diventa un’ossessione ripetere quelle già udite pronunciare dalle suore, con quella musicalità del latino che permette alla ragazza di sentirsi sopra ogni cosa, ma soprattutto estranea alla durezza di un mondo che a lei non ha riservato una sorte benigna, perché un’ignorante che biascica, che si permette di pronunciare verbi non suoi non può essere che una creatura del demonio, insomma una strega, da bruciare, da purificare con il fuoco. Diventa così, senza saperlo, nemica della Chiesa, tutta tesa a conservare per sé il potere delle parole o al più a lasciarne un po’ ai nobili; le classi devono restare al loro posto, un misero, un meschino non può elevarsi, perché ne andrebbe dell’equilibrio del mondo. E così, quelle stesse parole che hanno dato a Francisca la forza di vivere, la condannano, l’uccidono, perché la loro ricchezza e il loro potere devono restare a chi da sempre comanda, a chi delle parole ha fatto un uso a difesa dei propri esclusivi interessi. Inevitabilmente si arriva al processo della Santa Inquisizione, in un giorno del carnevale, in cui i giudici diventano maschere di altre maschere, se stessi, con una sentenza che è già pronunciata prima di iniziare, perché loro sono i primi colpevoli, complici di un diavolo che esiste solo in essi, solo parolai, di parole che non escono dall’anima, in un rito che più pagano di così non potrebbe essere. Ma allora perché il titolo Tu non dici parole? E chi è quel Tu?. Al misero non resta che la liberazione della morte, che arriva sempre silenziosa, per tutti e quel Tu non dici parole è rivolto a lei, alla signora in nero con la falce, che non ha preferenze, ricco o povero, colto o ignorante, tutti li ghermisce in un unico abbraccio. Questo romanzo, fatto di parole in italiano corrente, in italiano dell’epoca (XVII secolo), anche in dialetto ha la straordinaria proprietà di ammaliare, di far entrare in un’altra dimensione, in uno spazio-tempo sospeso. Per restare in tema verrebbe da pensare che l’autrice riesca a stregare, ma è solo la forza delle parole che perfino travolge. E’ inutile che aggiunga che questo libro è imperdibile. Di Renzo.Montagnoli
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