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Recensione
L’iperuranio di Lunaspina, edito da Prova d’autore, sfugge a qualsiasi precisa circoscrizione. Ha poco del libro tradizionale, per lo meno inteso come progetto classico: esso, infatti, è il frutto di una eterogenesi dei fini e sino alla vigilia della pubblicazione manco l’autrice forse pensava che potesse trovare corrispondenza in sedicesimi. È innanzitutto la storia di un’anima che, attraverso la scelta del prosimetro (si pensi al Satyricon di Petronio e alla Vita nuova di Dante), si materializza in una forma particolare, a metà strada tra un romanzo di formazione e un romanzo rosa. Tuttavia in fieri. Perché la miscellanea di poesie, racconti, pagine di diario, canzoni e testi giornalistici, essendo il frutto di quanto già precedentemente pubblicato nel suo spaces (http://faaarfaaalleee.spaces.live.com/), è suscettibile di arrangiamenti, complicazioni e prosegui. Lunaspina, nome d’arte preso in prestito da una canzone di Fiorella Mannoia scritta da Ivano Fossati, è una ragazza che si affaccia alla maturità classica spoglia dei fronzoli e dei belletti tipici di quella età e decisa a far parlare di sé, delle sue certezze e soprattutto delle sue contraddizioni, del desiderio di libertà e vitalità. E non è un caso che la sua isolitudine (nessun termine è più appropriato di questo neologismo coniato da Gesualdo Bufalino per associare l’idea di isola a quella di solitudine) coincide con un senso di claustrofobico labirinto:
[…] vivo in un angusto paese ai confini del mondo, un buco infernale dimenticato da dio con la stessa densità del Timbuctù […] (Profilo dell’autrice) Il suo agire e intendere trova conforto e giustificazione in un mondo che è fuori dal mondo, in quell’iperuranio spiritualizzato da Platone. Quello di Lunaspina è, pertanto, un percorso a ritroso, un tentativo di ripristinare l’unità dell’anima e vincere così lo stato di degenerazione e corruzione a cui immancabilmente nessuno può sfuggire. Il mito platonico della biga alata tirata da due forze centrifughe, due cavalli, uno docile ai comandi e l’altro riottoso, rappresenta il punto di inizio per far esperienza di quella parte appetitiva, animosa e razionale in cui la sua anima è divisa e sviluppare la triade che, ciononostante, non riesce a trovare una sintesi, una coniunctio oppositorum. Ed è la stessa autrice a dare di sé questa immagine variegata, a illuminare le proprie zone d’ombra, a riconoscere la propria diversità e poi accusare gli altri dell’impressione di una lettera scarlatta, attraverso un parossismo di accuse e indebite cambiali. È come se, attraverso le sue pagine, Lunaspina volesse a tutti i costi dare una gratificante e masochistica immagine di se stessa e poi confutarla. Il libro, dopo una breve autopresentazione ai limiti della scapigliatura (“Diversa, bastarda, eccentrica, testarda, impulsiva, espansiva, isterica, sfacciata, empatica, logorroica, s/leale, schietta, aggressiva, complicata, profonda. In una parola: ingestibile”, Profilo dell’autrice), si contraddistingue per la presenza di due elenchi, presi direttamente dalla sua pagina internet: le cose che amo/le cose che odio, in cui si avverte la sua duttile personalità. In entrambi gli elenchi compare infatti la sua predisposizione a farsi del male. A dire il vero già l’immagine della copertina, opera della talentosa Enza Di Martino, fotografa l’idea del doppio, che non è solo moltiplicazione pirandelliana di un altro da sé ma anche contaminazione e continuazione dell’archetipo materno. Non a caso la poesia che dà il la al libro coincide con l’io lirico della madre, una poesia-lettera scritta in rima alternata e baciata, in occasione del diciassettesimo compleanno della figlia, a cui Lunaspina risponde con l’immagine di una madre-spugna che vuole assorbire su di sé “mancanze, angosce, dolori, blocchi” della figlia. Questa prima parte in prosa è quella più convincente e viscerale e dispiace che la parabola psicologica non contenga un passato più recente. L’iperuranio di Lunaspina si divide in tutto in nove parti, ognuna con una precipua caratteristica. Ricordi indelebili è una radiografia dei suoi diciassette anni, una publicizzazione della propria identità, della volontà di porsi nel mondo come faber suae fortunae, come una cicala che non lesina alcunché e che vuole cantare alla vita nonostante i muri che vertiginosi si presentano. È la rievocazione e la volontà di determinazione anche nei confronti di quella amica a lei tanto cara che ha preferito la morte anziché passare attraverso il martirio rigenerativo dello slancio vitale della personalità. Insomma, una farfalla che diventa tale solo dopo aver passato l’inverno del bozzolo e che non vuole vivere una sola primavera. La seconda sezione, Flash, è l’occasione per parlare di quello che lei chiama blocco e presentare il fantasma paterno. Un padre che non è presente e che proprio con la sua assenza stabilisce un ingombro, un muro, una compresenza. Segue Amarezze scialbe che, attraverso la scelta di un titolo ossimorico, conferma la sua volontà di continuare ad esserci e di ex-sistere (da-sein, avrebbe detto Heidegger), tema sottolineato dall’epifora Io rimango; una risolutezza che nelle pagine successive sembra trovare realizzazione nell’amore e nella sua fine. Ma è un amore più carnale e fisico che spirituale, e quindi destinato a perire e a consumarsi non sempre per delle ragioni ovvie ma il più delle volte solo perché, come cantano gli Afterhours, “non c’è torto o ragione, è il naturale processo di eliminazione.” Il libro prosegue con delle sezioni dedicate alla poesia. Di queste, le migliori sono senza dubbio quelle non imprigionate dalle rime della quinta sezione Poesie in rima che, a causa dell’ artifizio di una pedante retorica, finiscono per avvicinarsi al genere della filastrocca. Risalgono al periodo della adolescenza e quindi risentono di un gusto più dimesso e ingenuo, in cui tuttavia emerge l’inclinazione già matura per un dolore vissuto con dignità e spesso silenzioso e per un atteggiamento comico-realistico nei confronti della vita: Se il mio mondo valesse di più lo baratterei per la pace; ma a che servirebbe quaggiù se il genere umano è rapace. Una volta ottenuta la virtù del tutto inutile sarebbe poiché il mondo non avrei più: un futile scambio resterebbe. […] (Se il mio mondo valesse di più) Non manca in questa sezione una certa mescolanza temporale, l’onta di un passato che si fa presente invalidando il futuro: […] Il passato mi condiziona, il futuro ormai non mi emoziona: poiché il presente è incerto pago vecchi errori. […] (Dura vita) Le sezioni della silloge poeticamente più riuscite sono quelle non rimate. In Poesie in versi sciolti c’è una lucida autoanalisi, un guardarsi allo specchio con gli occhi aperti, in cui è svelata la propria condizione di donna oggetto: […] Tu mi hai desiderata conquistata consumata ma… tu mi hai usata! Solo adesso che l’oscurità segue la luce, solo ora che mi guardo dentro, ti smaschero per ciò che fai, ti riconosco per ciò che non sei: tu non sei mio! (Agenti atmosferici) È proprio questa consapevolezza a indurla a farsi farfalla, ad uscire dal guscio, a liberarsi della vanità e ad esorcizzare la follia, a dilatare il proprio raggio visivo: […] Le pupille colme di futuro incalzano un fresco volere allorché in preda ad aspettativa avanza promettente uno sconfinato tramonto in marzo. (Mattini) Interessantissima la breve sezione di Spicchi di pensieri sparsi: la scrittura qui si fa più matura e il dolore coincide con una certa finitudine di matrice crepuscolare: Sfacciata nullafacenza stamani. Mentre una punta di gelo affiora l’epidermide, io mi bagno d’inquietudine. Il delta malato, un veleno di voglia velato, scorre nelle mie tiepide acque infestate da frotte di relitti. Brama le fertili terre scosse da moti perpetui ove rifluire libero, spoglio di ogni titubanza. (Sfacciata nullafacenza) La penultima sezione del libro è un ritorno alla prosa. Quella che sono è l’ennesimo autodafé che la scrittrice pronuncia dal banco degli imputati per testimoniare la sua sensibilità e il suo filtro nei confronti di una realtà che non ha pietà per la diversità. Il grido qui si traduce in un ottativo di consapevolezza (“La consapevolezza è potere. E il potere è magia”, Il fermaglio), in una lacerante svolta esistenzialistica (“Ero a pezzi e nessuno sembrava vagamente interessato a ricomporli”, Io esisto), in masturbazioni mentali sull’amore e sui suoi surrogati, fino a riconoscere nella veridicità della teologia negativa di Montale il punto d’arrivo di tutta la sua speculazione (“La mia mente entra in simbiosi con quella del poeta ligure e con lui respiro l’angosciosa consapevolezza del “non senso” dell’esistenza umana. Quante cose in comune. Chi meglio di me può capire l’ossessione costante per il tempo: percepire il suo lento, graduale, incessante logorio?” Io: quel filo spezzato dal logorio del tempo). Il suo messaggio diventa così continuazione di quel male di vivere, dell’ impossibilità di dominare il reale. Lunaspina si sublima nell’amore, e nel sentimento e nel suo inesorabile riscatto riconosce la conditio sine qua non, il miracolo per scorgere “una maglia rotta nella rete che ci stringe”(In limine, Montale). Una rete che, nell’ultima sezione del libro dedicata ai pezzi giornalistici, Malaccheffare, è rappresentata dalla denuncia non solo contro la vita in sé ma soprattutto contro le trappole e gli sguardi severi di una società invertita che non ha rispetto della dignità (I diritti dei gay) e della verità (Il pregiudizio killer).
Sito:http://provadautore.it/novita.php?genere=novita Di giacomo coniglione
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