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Gli insabbiati

Luciano Mirone, Gli Insabbiati. “Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’essere considerato un esperto di mafia, o come oggi si usa dire, un mafiologo. Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone”, (Sciascia - Corriere della Sera). Parlare o tacere? Dire sempre la verità, correre il rischio di essere ucciso o essere soprannominato “mafiologo”? La frase di Sciascia che, oltre a farci riflettere su una realtà ormai radicata in Sicilia per cui è considerato normale chi è omertoso, invita a dire la verità sulla realtà che ci circonda, anche se spesso essa è difficile, come quella Siciliana, oggi riflettiamo su quanti hanno sacrificato la propria vita per raccontare quella “verità” scottante che è la mafia. Contro l’opinione comune che ritiene che la lotta alla mafia sia combattuta dai magistrati e dalle forze armate Mirone dà voce ai giornalisti, che puntano i loro occhi sulle vicende nel tentativo di stanare la preda, raccontando. Chi sono Gli insabbiati? Otto giornalisti che hanno pagato con la vita il prezzo della verità. Come dei reperti archeologici coperti dalla terra e dal fango Mirone li ha tirati fuori dalla sabbia dell’indifferenza che la realtà aveva lasciato cadere sul loro operato. Loro sono Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mauro De Mauro, Beppe Alfano, Mauro Rostagno, Mario Francese, Giuseppe Fava il cui elenco potrebbe far pensare a quello di una classe di liceo, invece, sono i nomi di quei giornalisti che nella diversità dei loro caratteri e delle loro vite sono accomunati dal medesimo destino, un destino che in fieri ha seguito lo stesso iter: avvertimenti velati, minacce e infine la morte. Loro, gli insabbiati, con la loro morte non hanno perso la battaglia contro la mafia ma, al contrario, l’ hanno vinta perché il loro operato ha segnato la strada a quanti sono disposti a dire la verità e perché no anche a sacrificare la propria vita. Coinvolti in questa battaglia sono anche gli affetti di coloro che combattono. Madri, mogli e figli vivono ogni giorno con la stessa ansia di quanti vedono morire il proprio figlio, marito e padre sul campo di battaglia. E’ il caso del giornalista Mario Francese, il quale capì che la mafia agli inizi degli anni 70 aveva cambiato volto e stava passando nelle mani dei corleonesi. Francese ha pagato con la vita la sua intuizione, tuttavia dietro la “sua vittoria” ci sono gli occhioni scuri del figlio che hanno visto il padre morire. Mario è stato ucciso ma la sua voglia di dire la verità non è morta con lui perché il figlio Giuseppe, protagonista della vicenda, vuole sapere il perché, vuole conoscere la verità sulla morte di suo padre e diventare Lui è l’unico modo per ridare la vita a Mario. Gli otto insabbiati e quanti come loro hanno combattuto la battaglia contro la mafia sono lo stimolo e forse anche la speranza per coloro i quali intendono combattere e combattono oggi il sistema mafioso definito “a due teste”: una a Roma e l’altra a Palermo. Attraverso le loro parole rivive una Sicilia che vuole cambiare e che guarda in faccia “i giochetti” di Cosa Nostra con l’atteggiamento di chi non si rassegna. Scontata ma non per questo non indispensabile la riflessione sul giornalismo, sul ruolo dei giornalisti e sul loro essere informatori in questo momento in cui l’informazione è chiamata ad avere un ruolo importante, come sostiene, anche, la Borsellino nella prefazione al libro di Mirone. Alla domanda sull’essere giornalista l’autore risponde che il giornalista deve raccontare le cose come stanno, così come le vede, essere “libero” dalle opinioni politiche e soprattutto utilizzare i mezzi più temuti: parola e informazione. Chiaro a riguardo, a mio avviso, il messaggio della frase di Paolo Mauresing: “Solo se si dicono, le cose prendono vita. Taciuta, anche la più lampante delle verità perde ogni diritto all’esistenza”.


RosaMaria Crisafi

Di Sosuccia

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