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Recensione Alejandro Torreguitart Ruiz

Alejandro Torreguitart Ruiz

La marina del mio passato

Alejandro Torreguitart Ruiz La marina del mio passato
Alejandro Torreguitart Ruiz La marina del mio passato

Il racconto presenta due aspetti, opposti, ma inscindibili: la riaffermazione del diritto di essere se stessi in quanto individui dotati di propria autonomia intellettiva e quindi di personalità, e la grigia oppressione di un regime, del tutto avulso dalla realtà  che ogni giorno vivono gli esseri umani che ne sono assoggettati.


Il protagonista, un vecchio pescatore, solo, che vive in una palafitta della Marina, non crede a nulla, non ha mai creduto, non è religioso e anche quando ha combattuto nella Sierra con i castristi contro Batista lo ha fatto per necessità. Tuttavia, là, fra tante battaglie e pericoli, la figura del suo capo, dell’esempio che ogni giorno portava ai suoi sottoposti, ha rappresentato un faro, una guida su cui contare e di cui avere fiducia.


Ancora una volta è quindi l’uomo che emerge prepotente sulla spersonalizzazione del regime politico, tanto più vero ove si consideri che per il resto della sua vita il pescatore ha creduto in una sola persona: sua moglie.


Parallelamente alle acute osservazioni sul dualismo fra individuo e regime, il ricordo di quest’uomo, che non si aspetta più nulla dalla vita, va alla consorte, che tanto ha amato e che per un male incurabile lo ha lasciato.


In verità ci sarebbero le figlie, ma una si è sposata con un italiano e vive nel nostro paese, e dell’ altra, rimasta a Cuba, si è persa la traccia. Non è che il nostro protagonista non ami chi gli rimane della famiglia, ma questi rappresentano un’entità autonoma, elementi di un futuro di cui non potrà mai  essere partecipe, perché lui non crede più a nulla.


Così trascorre il tempo fra la pesca, che gli consente di raggiungere il minimo di sussistenza, vendendo le aragoste ai ricchi turisti stranieri, con il pericolo di essere scoperto, in quanto il pescato per legge è di proprietà dello stato, e il riposo seduto sulla veranda, con davanti agli occhi l’oceano, uno schermo immenso sul quale si proiettano tutti i ricordi di una vita, magari grazie anche ai suggerimenti del suo vicino, vecchio come lui e pure solo, ma per libera scelta.


Entrambi sono senza speranze, perché per loro non c’è futuro ed è solo la memoria del passato che li tiene in vita, ma in una sorta di desolata rassegnazione, con la certezza che il domani non sarà diverso dall’oggi.


Le pagine di questo racconto sono tutte belle, ma le ultime sono addirittura sublimi, a tal punto da generare un’autentica intensa commozione.


La figura dell’anziano pescatore e il suo rapporto con l’oceano può indurre a qualche accostamento con “Il vecchio e il mare” di Hemingway, ma assicuro che si tratta di un’opera ben diversa, più malinconica  e, in alcuni elementi, forse migliore (in particolare per quanto concerne la descrizione del paesaggio e dell’ambiente, realizzata con poche appropriate parole e perciò mai greve, pur in presenza di un sottofondo emozionale lasciato abilmente trasparire solo quando strettamente necessario).


Ruiz è un giovane scrittore, ma di indubbio talento, che nell’isola in cui vive, e che ama, ben difficilmente potrà emergere. In questo senso è doveroso un ringraziamento a Gordiano Lupi, che lo ha tradotto e lo ha fatto conoscere nel nostro paese.


 

Di Renzo.Montagnoli

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