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Recensione Cesare Pavese La bella estate
Cesare Pavese La bella estate
L'estate è la metafora per eccellenza della giovinezza. D'estate i corpi caldi e abbronzati delle ragazze si liberano degli impedimenti degli abiti invernali e si muovono con leggerezza ed innocenza sui litorali affollati (che, come si sa, sono i luoghi favoriti per gli incontri) o per le strade umide e fresche della città e delle colline (che è dove si svolge la nostra storia). L'estate è l'innocenza di quei particolari anni, dei sedici anni, in cui la città è una terra inesplorata e la pelle è ancora fresca dove non sono ancora arrivate le mani di un uomo, dove aleggia ancora la sensazione inebriante di un'aspettativa, di una scoperta, di una libertà che si perderà già insieme alle foglie d'autunno. Così Ginia vive la sua estate, estate di innocente scoperta, di quella sfacciataggine che nasconde un pudore segreto e un segreto timore, una timidezza che solo un corpo vergine ancora sa possedere. E' spudorata, Ginia, conosce o crede di conoscere il suo corpo, conosce o crede di conoscere quel mondo in cui si affaccia credendosi donna, scambiando per maturità quell'energia tutta giovanile che l'accompagna dall'estate all'autunno, spettando una nuova estate. E così è, in fondo, l'adolescenza: è vivere spensieratamente ogni estate, ogni giornata di sole, convinti che quella sensazione di onnipotenza non finirà mai. Ci si muove da un luogo all'altro aspettandosi di incontrare solo altre meraviglie, altre scoperte, altre bellezze. Non si pensa mai al dopo, non si pensa mai per sè. L'adolescenza è onnipotenza e brusco risveglio, quando i sogni d'amore e femminilità di trasformano in sprechi e dopo il punto di svolta, dopo quella curva vertiginosa, ci si accorge con smarrimento che non si torna indietro, che basta un attimo e si è già vecchi, basta un momento e si è ormai niente. Questo racconto ha il sapore dell'illusione, della testardaggine giovanile, di quella spavalderia che solo le ragazze di sedici anni davvero conoscono: si guardano allo specchio e d'un tratto sanno di essere potenti, di essere donne. E donne ancora non sono e ci penseranno i fatti a dimostrarlo. Ma come sono graziose le ragazze a sedici anni, quando si fan furbe e cominciano a crederci davvero, al vero amore, e al potere dei loro fianchi inesplorati e delle loro lacrime accorate sulla spalla di un uomo!
Pavese racconta con disinvoltura dell'estate di Ginia. E racconta di Amelia e dei pittori e dei corpi e dei ritratti, dei colori e del freddo pungente di una cittadina in collina dove si consuma la loro splendente età. Con disinvoltura e allo stesso tempo con garbo, forse troppo. Costeggia la ragazzina e la donna Ginia, ne traccia i contorni, come nei bozzetti di Rodriguez. Lascia che sia quasi indefinita, come se Ginia fosse Ginia e chiunque insieme, come fosse lei e tutte le sedicenni di ogni epoca e luogo insieme. Ginia scopre il sottile confine fra l'essere giovani e fresche e l'essere ormai invecchiate, paradossalmente, una volta che del corpo si sono scoperti tutti i segreti e ormai nulla sembra in grado di ridarci quei giorni spensierati.
Non mi ha stregata, nonostante le aspettative. Mi aspettavo qualcosa di più. Sono due stellette e mezzo, ma quella mezza stelllina che ho tolto alle tre che probabilmente avrebbe meritato è dovuta alla lentezza della narrazione, al tono spesso piatto, monocorde, a questo non riuscire ad andare oltre, non riuscire a uscire dalle pagine e catturarmi fino in fondo. E questo non riuscire ad andare oltre, non mi permette di dargli una piena votazione, di metterlo al pari di altre opere che magari non erano capolavori, ma mi avevano dato un attimo di capogiro. La bella estate non va mai oltre, non esce dagli schemi, non osa mai. Persino la trasgressione di Ginia viene raccontata con pudore, con distacco, con tiepidissimo coinvolgimento. Avrei voluto farmi sconvolgere, ecco. Avrei voluto leggere di Ginia e della sua estate che sfuma in gelido inverno e sentirmi salire i brividi, ricordano i miei sedici anni e i miei castelli in aria, quando susultavo per un nonnulla, quando tutto era delirio e poesia, quando anche le cose più frivole e sciocche potevano essere il centro del mio mondo, quando mi sentivo già donna e donna non ero, quando sentivo di poter divorare il mondo, prima che il mondo mi divorasse. Questo racconto mi ha lasciata un po' all'asciutto, nonostante debba riconoscerne le indiscusse qualità.
Di Hellionor
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