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Recensione Haruki Murakami Kafka sulla spiaggia
Haruki Murakami Kafka sulla spiaggia
Kafka sulla spiaggia ha la struttura e la consistenza di un sogno. Sul New York Times Book Review hanno scritto: “Tutti possono raccontare una storia che assomiglia a un sogno, ma rari sono gli artisti che come Murakami ci danno l’illusione di sognarla”. E credo non esista descrizione migliore. Il tutto inizia lentamente, soffusamente, pacatamente. Dettagli infinitesimali, un ritmo lento e ipnotico. Come un dormiveglia, le prime pagine oscillano, ondeggiano come il flusso e riflusso dalla marea, accolgono e respingono. Come un dormiveglia di incertezza, fuori e dentro al sogno. Solo dopo un momento di incertezza, il ritmo ipnotico delle prime pagine si svela: mentre ancora trama e struttura non si avviano e qualcosa come una leggerissima sonnolenza si impadronisce di noi, ci si accorge del valore, del senso di quelle prime, traballanti pagine. Sono un potente, geniale e perfetto anestetico. Occorre dormire e abbandonarsi al sonno, per sognare. Murakami è furbo, struttura il libro come un lungo sonno e al principio colloca una delicata ninnananna. Una monotona ed efficace nenia. Dopodiché, è il delirio. E il romanzo è strutturato come fosse un sogno, un sogno come lo immagina Freud (e qui si svela l’immensa cultura non solo musicale di Murakami), il prodotto di reminiscenze della veglia, ma così perfettamente collocate, strette in inossidabili consonanze e dissonanze che è impossibile isolarle, inserite in un racconto delirante e indescrivibile, semplicemente inattaccabile. Kafka sulla spiaggia è uno di quei sogni che durano tutta una notte, articolato e geniale. Il protagonista, Kafka Tomura, è essenza unica e duplice, indistinguibile dal contesto in cui si colloca, e così tutti gli altri personaggi. Ci sono parti separate e distinte in principio, che, raggiunto il cuore del racconto si fondono, si compenetrano, ispessiscono la realtà, che intanto smussa gli angoli e diluisce i contorni, raggiungendo la compattezza di un’esperienza onirica senza precedenti. Il quindicenne più tosto del mondo è solido, combattuto fra l’equilibrio e lo squilibrio: il corpo vigoroso e sensuale sostiene un’essenza oscura e informe. La duplicità tanto cara ai nipponici, questa natura poliedrica e inafferrabile, che attende solo le giuste circostanze per rivelarsi, riguarda ogni personaggio che Murakami colloca nel romanzo: come se, come sosteneva Freud, ogni personaggio, che nasce e si nutre di qualcosa che realmente esiste nella veglia, per combaciare con la necessità del sogno, fosse vittima di trasformazioni e adattamenti. I personaggi sono materie plastiche, intrappolati, che si piegano e si amalgamano alla necessità, al senso unico e indistruttibile, segreto e inaccessibile del sogno. Così la verità che Kafka cerca si adatta all’inafferrabilità del sogno, restando nella forma indefinita dell’ipotesi. Così i rapporti fra esseri umani si adattano alla necessità di creare non solo barriere fra esseri, ma fra intere dimensioni, e ogni relazione non si limita ad un reciprocità fra esseri simili, ma, attraverso Nakata, diventa breccia fra questo mondo e quello degli animali. La comunicazione si dilata, creando canali di comunicazione anche fra esseri animati ed esseri inanimati. La sessualità si libera dal suo essere esperienza carnale nell’immediatezza e nella compresenza e diventa esperienza concreta attuabile nel sogno. Il sogno (che, volendo, è un sogno nel sogno), in questo clima, diventa unico vero canale di comunicazione, diventa luogo di incontro, come, nel folklore, luogo di incontro fra vivi e morti. Il sogno, nel ribaltamento che dà sapore ai sogni e al romanzo, è luogo di compimento della necessità, nella profezia da cui fugge Kafka. E’ luogo, come dice Yeats, in cui incominciano le responsabilità. O meglio, luogo nella quale le azioni davvero si compiono e davvero appartengono all’uomo, non sono più frutto di una necessità e di una convergenza di forze. Sono il luogo della consapevolezza e nell’azione volontaria. E’ sconvolgente quanta genialità ci sia, in questo romanzo. I tratti caratteristici di Murakami, il continuo riferimento a brani musicali di successo, la musica e la filosofia, la letteratura che costellano (come reminiscenza della veglia, del resto) l’opera, la delicatezza e la pacatezza, priva di quel sapore aspro che caratterizza, ad esempio, di opere di Mishima (forse perché in Murakami manca la disperazione, su di essa prevale una necessità) si arricchiscono perché inseriti in una costruzione intricata e perfetta, coinvolgente. Indefinita, come sono i contorni dei sogni, inafferrabile, come la trama di un sogno dopo che ormai è passato, senza tempo, come il sonno profondo. Ricorda molto il film Waking Life, per certi versi. Anche nel film del 2001 il sogno diventa luogo di conoscenza e comprensione, momento fatidico in cui è possibile ripescare i dati dal nostro cervello e ricollocarli, con precisione, senza che tempo e logica rovinino un risultato che deve restare inalterato, in cui tempo e spazio vengono denaturati e compresi, non sono più tiranni. Occorre terminarlo e leggerlo con abbandono, per coglierne la perfezione. Rischiando di ripetermi, Kafka sulla spiaggia è come un sogno, solo quando è finito ogni cosa è al suo posto. E dà l’impressione di stare sognando, perché il ritmo ipnotico e denso produce lo stesso effetto della quiete delle due del mattino, in bilico fra veglia e sogno, irretisce e cattura, si annega in questo mare denso che è il romanzo. Geniale.
Di Hellionor
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