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Recensione Alberto Moravia Il titolo è sicuramente poco invitante. Ma basterà concedersi a poche righe per restarne completamente avvinti. Il registro è quello del Moravia a cui siamo abituati: una scrittura dessamente teatrale, con ampio spazio ai discorsi diretti e ai soliloqui, il tutto incorniciato dalla smania del sesso e dalla critica antiborghese. La noia di Alberto Moravia, romanzo del 1960, specie nei primi capitoli, è a metà strada tra una pièce e un saggio, una sorta di «cosmogonia della noia». Non a caso è stata fatta nel 1963 una visitazione cinematografica dal regista Damiano Damiani. La fenomenologia della noia non è altro che la mancanza di rapporto, una non corrispondance con le cose, con gli altri, con sé: “Per molti la noia è il contrario del divertimento … per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’ inverno…oppure la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa…oppure la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina”. Il protagonista del romanzo è Dino, «l’amministratore della noia» per antonomasia, un pittore che inizia a usare i pennelli per sfuggire all’indifferenza (il romanzo a tratti sembra il proseguo dell’omonimo romanzo del 1929), un Dorian Gray ante litteram che cerca di sfuggire al determinismo economico e soprattutto alla noia, al fine di entrare in empatia con il reale che sembra sfuggirgli di mano anche a causa della madre, una donna cristallizzata nella forma di nobildonna e ricca possidente. La vita di Dino è avvolta nella nebbia, è un continuo confrontarsi con la tela vuota, un oscillare –molto schopenhaueramente- tra noia, disperazione, dubbio e sesso. Una situazione che resta tale anche quando entra nella sua vita Cecilia, una giovane con personalità duplice,che finisce per diventare la sua amante. Cecilia -ora donna, ora bambina, sia nell’espressione che nei gesti- è una ragazza di poche parole che ha solo l’espressione sessuale: la sua unica bocca pare essere quella della vagina. Tra i due si istaura una comunicazione prettamente fisica-tuttavia mai completa- e il loro rapporto è mercenario ed è solo un palliativo di fuga dalla noia, anche quando Dino trasforma il rapporto in sadismo e sarcastica provocazione. Cecilia acquista materialità, diventa reale, solo nel momento in cui Dino teme di perderla a causa di una relazione che la giovane intrattiene con Luciani, un giovane attore. Fino a questo punto infatti Dino ha una tela vuota perché non riesce “a prendere possesso di una realtà qualsiasi, allo stesso modo che era vuota la mia mente nei confronti di Cecilia che mi sfuggiva e non riuscivo a possedere”. Il romanzo si chiude con una morale negativa. Moravia ci invita a rassegnarci alla tela bianca perché ogni lotta per dominare il reale è impari, avvilente e inutile. Non rimane che accettarne passivamente le sue non univoche manifestazioni. Di giacomo coniglione
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