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Recensione Concita De Gregorio
“maman blues”: essere madri non è uno scherzo. Ho comprato questo libro per regalarlo a mia madre, per tutte le volte che racconta di quando io ero appena nata, della fatica di star dietro a figlia e lavoro allo stesso tempo, di mio padre che tornava tardi da lavoro, dei nonni lontani, della girandola di babysitter. Di come essere madri non è facile proprio per niente, sempre sottoposte al “coro degli altri” che guardano, giudicano, non approvano e non capiscono quasi mai. Ho letto questo libro e subito ho pensato che diventare madre è una fatica boia, che chi te lo fa fare di cambiarti la vita così, distruggendo un equilibrio lavoro-amore-amici-casa faticosamente costruito in anni. Poi ho letto che l’autrice, quella stessa Concita De Gregorio che scrive su Repubblica e su D, ha quattro figli. E allora ho pensato che se una giornalista intelligente e brillante come lei è recidiva al tal punto una ragione ci deve essere, e le soddisfazioni dell’essere madre devono essere almeno pari alle ansie, alle notti insonni, ai pianti, strilli, capricci che i bambini ti impongono. Concita De Gregorio ha il coraggio di ammettere che avere un figlio non è semplicemente una cosa meravigliosa, che l’amore materno ha mille sfaccettature, a volte commoventi e a volte crudeli. Che le mamme non sono tutte uguali, in virtù di un presunto, mitologico e potentissimo “istinto materno”, ma che ognuna vive il rapporto con il figlio a modo suo. Che l’amore materno non è mai perfetto in senso assoluto, ma ha mille sfumature. Una ventina di brevissimi racconti per raccontare che la depressione post-parto esiste, e ha colpito persino Brooke Shields, l’eterna adolescente incapace di accettare il nuovo ruolo di madre. Racconta di donne che un figlio non basta a fermare, come il “cobra” Valentina Vezzali, campionessa del mondo di scherma con un figlio di pochi mesi, e donne che un figlio non lo vogliono, come l’ostetrica che ha fatto nascere centinaia di bambini non suoi, e mai il proprio. Apre squarci dolorosi riportando le storie di bambini malati che vivono solo grazie al totale sacrificio materno e bambini che vivono felici e contenti senza genitori come Pippi Calzelunghe, eletta a simbolo del “modello svedese” di vita e di educazione dei figli. Storie di donne normali che chiamano i figli dagli areoporti, con il senso di colpa per essere lontane, e storie dolorose e terribili come quelle delle madri di Plaza de Mayo, e degli Hijos che hanno visto torturare e uccidere i propri genitori. Basta ipocrisie, infine, sul ruolo di madre: è una faticaccia, e c’è bisogno di aiuto: ben vengano gli uomini consapevoli, i famigliari e gli amici presenti non solo a parole, se necessario anche le cliniche specializzate nei “maman blues”. È sempre stato così, non è una moda di oggi: lo dimostrano le spaventose ninnananne che si cantavano, nei secoli e a ogni latitudine, per far addormentare quei piccoli mostri che chiamiamo bambini. Di p_sereno
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