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Recensione Stefano Lorefice

Stefano Lorefice

L'esperienza Della Pioggia

Stefano Lorefice L'esperienza Della Pioggia
Stefano Lorefice L'esperienza Della Pioggia

La poesia di Stefano Lorefice nel suo libro “L’Esperienza Della Pioggia” si dipana in due parti.


La prima nel mondo definito Corpo/Città dove il corpo è qualcosa di materiale, metropolitano, che si destreggia nella durezza della vita, nell’incompiutezza che lo porta a navigare verso un microcosmo interiore versus il macrocosmo definito come città, popolo.


Un’interiorità in cui non si torna mai indietro, si procede sempre avanti nonostante si sia fustigati dal dolore.


C’è nella sua poesia una solitudine nella moltitudine, un restringersi in piccole cerchie di chi sa ancora ascoltare e sente. Pur se soffocato ai limiti delle porte dell’anima si lotta, sempre.


La città traslata come folla che non ci ascolta, che continua a “vagare” nei suoi ritmi prestabiliti è solo un’apparenza, una maschera per proteggere la propria anima, che invece vorrebbe folleggiare, pasteggiare nel dolore e nei sentimenti.


L’io poetico è in netta contrapposizione con la civiltà che frenetica spazza via l’unicità dell’essere frammentato in brevi attimi di respiro, senza senso nello scorrere della moltitudine dove le voci si smorzano, affievoliscono e muoiono dimenticate.


Come cita il poeta “…manca il fiato per capire i nostri angeli muti…”.


Mai piegarsi all’omologazione “…che c’abbiamo la mano sinistra legata dietro/ perché da sempre ci hanno obbligato ad usare la destra.”


Un grido che s’eleva dalle profondità per squarciare i cieli cupi, per farci udire il suo grido ed odorare tra le callose amenità il senso intimo della nostra vita.


Nella seconda parte chiamata Corpo/Frontiere si definisce il concetto stesso di poesia di Stefano, dove la semplicità tra il corpo e la mente dovrebbe essere diretta, un dentro che si dipana nel fuori, che ci potrebbe consumare ma merita di essere vissuto sempre, poiché la vita senza amore e sentimenti sarebbe una landa sterile ed immota.


La dimenticanza dei gesti d’amore, persi in un altrove, dove a volte neanche la forza della memoria può accedere, come se vi restasse solo l’eco della movenza stessa.


L’amore è qualcosa che lascia scivolare via tutto, il ricordo è l’unica cosa che rimane, ed è già troppo poiché ha strappato via l’unico dio possibile: la propria essenza.


Regna in queste frontiere, un profondo senso di lotta per l’identità e la forza del proprio cuore, contro chi non riconosce tali valori.


Si viaggia al di dentro della propria anima superandone i limiti e giungere così al proprio fulcro.


Vivere non è semplicemente respirare, emulare la quotidianità ma sfrondarla per arrivare all’atto dell’esecuzione stesso della vita.


Come ci dice il poeta stesso “…io devo restituire la mia faccia vera/ quella senza sconti”, “…viaggiare è conoscere al contrario/ partire dal cuore, dove la gola non pensa”.

Di Storming

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