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Recensione Andrea Molocchi Obronì racconta di Diana, ragazza italiana molto legata al padre, morto in un incidente stradale in Ghana, dove lavorava come giornalista e dove si impegnava per conoscere e indagare a fondo la cultura tradizionale degli Akwamu. Ma, cercando risposte su una morte violenta che ha spezzato il solido legame con il padre, Diana si imbatte nella ricca cultura africana, nei suoi riti, nelle sue usanze, che ai suoi occhi di occidentale appaiono paurosi e incomprensibili. Pian piano, con l’aiuto di Mfum e di altri amici conosciuti in Africa, ritrova le tracce del padre e di una cultura che, nonostante la distanza geografica e culturale, impara a sentire un po’ come propria. Obronì è un romanzo, ma è anche una riflessione continua sull’Africa, sul suo mondo misterioso e del rapporto che gli occidentali hanno con i suoi insondabili misteri. Il titolo rimanda ad un nomignolo che i bambini affibbierebbero ai bianchi. Significa “senza pelle”. E senza pelle è l’occidentale, non solo perché bianco ma anche perché, così tenacemente legato alle proprie categorie, ai propri modi di vedere il mondo, ai propri metodi conoscitivi, è indifeso di fronte ad una cultura così diversa. Quello degli Akwamu è un mondo popolato da creature soprannaturali, spiritelli e demoni che gli stregoni invocano per fare del bene o per punire gli uomini per le loro malefatte. E’ un mondo in cui alcune donne sono tenute schiave, in cui la diffidenza verso il bianco si mescola alla curiosità, in cui la tradizione e i valori familiari sono la cosa più importante. E Diana, da occidentale, si avvicina a questo mondo misterioso, ma lo fa cercando di comprenderlo e spiegarlo alla maniera che conosce e che le è propria (culturalmente parlando), cercando una spiegazione logica dove la logica non impera. Dove sono la fede nella divinità, la necessità di influire sulla natura in modi sconosciuti al bianco, a influenzare le azioni e i legami fra esseri umani. Alternandole e incrociandole, Molocchi ha stabilito un efficace equilibrio fra la trama e la riflessione antropologica. Spesso, quando al racconto vero e proprio l’autore aggiunge considerazioni personali, questo considerazioni rubano spazio e cura alla storia. Capita così che la storia sia un strumento funzionale alla riflessione e non sia più protagonista. O, viceversa, se l’autore sceglie di dedicarsi interamente ala storia, le considerazioni personali devo necessariamente occupare una posizione marginale. In questo caso, riflessione e trama mi sembrano abbastanza equilibrate. Molocchi lascia che siano i suoi protagonisti a parlare per lui e a descrivere l’universo sensazionale dell’Africa ghanese, così da poterli non solo presentare, ma caratterizzate. Trama e riflessione si alternano, si completano. L’esperienza di Diana non sarebbe stata così completa, altrimenti. Forse non abbastanza caratterizzati i personaggi: qua e là, forse per motivi di spazio o per non rallentare il ritmo, alcuni passaggi e avvenimenti vengono taciuti, dati per scontati, rendendo difficile la comprensione della successione di eventi o le ragioni che spingono Diana a determinate riflessioni. Le loro inquietudini, i loro percorsi personali non vengono approfonditi, molto spesso vengono lasciati in sospeso, come se fossero solo dei portavoce dell’autore. Ma, tutto sommato, la trama è ben strutturata e a momenti di più esplicita riflessione, si alternano momenti di pura azione, di pura narrazione. Per questo credo ci sia un piacevole equilibrio. Mi è piaciuto il modo in cui, nel romanzo, i personaggi si scambiano il testimone, raccontando un po’ per volta e da angolature diverse l’esperienza di Diana in Ghana: Molocchi fa parlare di sé la stessa protagonista, mostrandone i limiti culturali e personali; lascia poi che sia Mfum, membro della famiglia reale di Mmoase a raccontarci l’esperienza dei giovani ghanesi, che se da un lato rinnegano la rigida tradizione dei loro villaggi di provenienza, dall’altra li riscoprono, trovano autonomamente soluzioni per i problemi delle comunità africane, anche grazie al contatto con le altre culture e riaffermando del bisogno e quel desiderio africano di riappropriarsi della propria terra e ridiventarne i custodi; infine, a parlare è anche lo spirito di Saverio, il padre di Diana, spiritello inquieto che dà un tocco di fiabesco al racconto. Mi è piaciuta molto la ricostruzione (per di più, di fantasia) della tradizione Akwamu: i rituali, i talismani, il dono dei proverbi. Evocative le descrizioni, così come sono oniriche e poetiche le impressioni di Saverio, che si muove furtivo nella foresta spessa, si aggira fra le palme di rafi, vola per salire salire salire e ritrovare i raggi del sole, e poi tornare a guardare giù ,fra le lamiere di Mmoase, nei cortili e negli spiazzi, sotto le tettoie, fra i muli che sostano all’ombra delle case, nell’auto che si ferma nella piazza del paese, e poi…improvvisamente capire. Improvvisamente capire. Questa frase credo riassuma tutto il romanzo. La comprensione di quella realtà, così diversa, risulta difficile a noi occidentali, abituati a pensare in termini di numeri, significati, valori. Ma è anche necessario conoscere e rispettare le culture altrui, specialmente se così belle e diverse come quelle dell’Africa. Conoscere l’Altro senza chiudersi in se stessi e consentire al popolo africano di riappropriarsi della propria identità. Ma è anche una comprensione improvvisa. Perché l’Africa è sconfinata; occorrerebbe una vita per conoscerla davvero e la si conosce solo alla fine, improvvisamente, come in un sogno o in un delirio. Questo, credo, il messaggio di Molocchi, che ci racconta, in questo piacevole libretto, l’Africa amata, sospirata e immaginata. Di Hellionor
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