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Recensione Valeria Parrella Lo spazio bianco (Einaudi, 2008)
"Non sono buona ad aspettare. Aspettare senza sapere è stata la più grande incapacità della mia vita. Nell'attesa ho avuto lo spazio per costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti dopo farle crollare, per mia stessa mano. Poi riprendere da un punto qualunque, correggere il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione immaginata più solida. Vederla crollare di nuovo. (…) Io non so aspettare e non voglio farlo, nell'attesa i mostri prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere e mangiarmi. Non sento curiosità nel dubbio, né fascino nella speranza, fossi stata Eracle, non mi sarei fermata al bivio" (pp. 72-73).
Lo spazio bianco.
Quello latteo in cui galleggiano le parole, che sono come la musica: l'interruzione momentanea del silenzio.
Lo spazio bianco è quello dell'attesa, che nel tran-tran della vita "normale" è una pozzanghera da scavalcare. Ma quando sulla carreggiata delle nostre esistenze, magari esercitate sui libri, un evento si mette di traverso, allora no.
Lo spazio bianco si dilata, si deforma. Il tempo si allunga - "tante volte ventiquattr'ore" (p. 10) -.
Si moltiplica. Si ferma. Le distanze tra le parole diventano incolmabili.
"Misuravo i giorni che passavano con la lunghezza della mano di Irene stretta su una delle mie falangi" (p. 39).
" […] guardavamo i minuti scorrere come in una partita di scacchi" (p. 40).
"Avevo sufficiente intimità con i giorni normali per sapere che il nostro tempo dilatato e fermo non rispettava le ore frenetiche degli altri, che procedeva turnato nelle entrate e nelle uscite fino a sera, e poi, una volta a casa, si allungava lento in propaggini che dal mio balcone arrivavano fino a quel taglio di mare che riuscivo a vedere tra la parabolica del vicino e la cupola di Donnaregina" (p. 45).
Il silenzio si divarica.
Così accade a Maria, insegnante di Lettere nelle scuole serali di una Napoli "involontaria e infame" (p. 98) che è essa stessa uno spazio bianco tra isole di cemento, parchi tecnologici per tossici e cumuli di rifiuti.
Irene. Cinque lettere a galleggiare in una vita-non vita. Non più feto, non ancora figlia di una Maria che dopo il suo parto prematuro vive nell'attesa di una nascita. O di una morte. Con le paure, le angosce, le speranze che che rendono l'attesa un oceano, troppo lontano dalla costa del passato e delle certezze, ancora lontano da un futuro possibile. O da un presente nuovo.
" […] volevo dire che molte noi molte cose non le sappiamo. Che è presto per saperle, che c'è una fascia di indeterminatezza: come dire, signora: una camera vuota, in cui non sappiamo cosa succederà" (p. 48).
Il linguaggio della Parrella è asciutto ma illuminato da metafore pregnanti. La prima persona, diretta e lucida, sempre in credito di senso verso una realtà che richiede un'esegesi e delle glosse esplicative e che invece rimanda come in un gioco di specchi sempre a nuove e rituali ridefinizioni del significante, scandaglia la via crucis dell'attesa, scandita irregolarmente da noia e dolore, tensione e sollievo, lezioni mortifere e doni inattesi.
E i versi di Eschilo con la loro metrica scandita non aiutano, né il libro sul laicismo, saggistica pura che pure dovrebbe anestetizzare la cognizione del dolore. Il ritmo del libro risulta franto, irregolare, le aperture poetiche sono slarghi luminosi nel labirintico gorgo dell'attesa.
"Io mi aggrappai solo alla parola sempre, me la tenni stretta e me la ripetei molte volte in testa per darle verità" (p. 92).
Un romanzo che è un inno laico alla speranza.
Speranza di riscatto per una Napoli metafora di un'Italia possibile, redenta magari da quegli extracomunitari - fuori luogo - o da quei pluriripetenti - fuori tempo - incantati da una pagina leopardiana.
Speranza di solidarietà nella sofferenza comune.
"La testa si era esercitata così, a fidarsi solo di se stessa. E allora ritornava nell'equivoco di bastarsi da sola ogni volta che si sentiva tradita dalla realtà" (p. 7).
Maria proprio nelle attese sfibranti e dolorose in ospedale ritrova il senso di una maternità comune, di un calore che abbatte differenze di istruzione, di fede, di età.
Speranza di vita, di "una cosa inaspettata e piena e tua" (p. 95).
"Anche tenere Irene in braccio per la prima volta non è stato difficile, doveva esserci un'istruzione genetica da qualche parte. Mi hanno detto "Si sieda", poi mi hanno passato i fili degli elettrodi, l'hanno avvolta in un lenzuolo e me l'hanno messa tra le mani. Senza pensarlo, senza pensare, io ho sentito che non avrei avuto più fame né sete, che non avrei più avuto bisogno di fare all'amore. E che sarei potuta restare in quell'istante per quindici anni senza temere di aver perso tempo un solo giorno. Poi mi è venuto sonno” (p. 82).
"Mettici uno spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi" (p. 112).
Maria Lucia Riccioli
http://www.marialuciariccioli.splinder.com/
Valeria Parrella è una scrittrice nata nel 1974. Vive a Napoli. Ha pubblicato “mosca più balena” (minimum fax 2003, Premio Campiello opera prima), “Per grazia ricevuta” (minimum fax 2005, finalista Premio Strega, Premio Renato Fucini, Premio Zerilli-Marimò) e Il verdetto (Bompiani 2007).
La recensione al suo nuovo romanzo (“Lo spazio bianco”, Einaudi, Torino 2008) è firmata da Maria Lucia Riccioli, docente di letteratura italiana e critica letteraria che collabora al mio litblog “Letteratitudine”.
(Massimo Maugeri)
www.letteratitudine.blog.kataweb.it
Di Massimo Maugeri
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