Recensione Giovanni Verga Storia di una capinera
Giovanni Verga Storia di una capinera
Un bellissimo racconto epistolare, che raccoglie la corrispondenza tra Maria, giovane educanda, e la sua amica e confidente Marianna.
Nella Sicilia negli anni dal 1854 al 1856, un'epidemia di colera colpisce la città di Catania, costringendo i nobili locali a spostarsi nelle residenze di campagna, per evitare il contagio. Anche le giovani educande dei conventi catanesi vengono rimandate a casa, temporaneamente, per salvaguardare la loro salute. Così è per Maria, orfana di madre, che torna in seno alla famiglia, nella campagna di Monte Ilice, respirando nuovamente l'aria fresca e fragrante della libertà. Le sue lettere, scritte all'amica e confidente marianna fino alla morte, raccontano del suo amore proibito per Nino, figlio di una famiglia nobile catanese, che la ricambia e del tormento che questo sentmento proibito e peccaminoso le infligge.
Lettere di grandissima bellezza, in cui Verga parla per bocca di Maria, la capinera in gabbia, che anela ad un raggio di sole, ad un zefiro soltanto, rinchiusa fra le mura del convento, lei che è destinata a morire, a discendere in quel luogo di morte per non rivedere la luce. Ma se insopportabile le è perdere quelle gioie che le colmano il cuore, che le animano lo spirito fragile di chi non ha conosciuto null'altro che la protezioni ovattata e buia del convento, ancor più insopportabile è vivere implorando le mura perchè le aprano un spiraglio verso il luogo in cui l'amato, Nino, vive e respira e ama e stringe a sè la moglie, che è sorella di Maria. Quale strazio incomparabile, quale tormento. E il dolore, la paura del peccato, quell'atmosfera lugubre che le parla di morte, di perdita, di condanna, le urla strazianti di suor Agata, la mentecatta rinchiusa nelle segrete, lei che urla e strepita e che, come Maria, invoca la grazia della morte o della libertà.
E nella follia, quasi, nell'essere divorata dall'ossessione bruciante, dall'amore doloroso e inuietante, questa figura pallida che le si profila nella mente allorchè si sente indifesa, che infine il suo cuore si ferma, il corpo si spezza sotto il peso di un'emozione troppo forte perchè possa sopportarla e sopportare di starle lontano per una vita che le apparte eterna e le sembra lontana dalla vita vera. Lei muore, baciando le foglie di rosa che Nino le aveva lasciato sul davanzale, quando il loro addio era stato un bussare mesto alla finestra e un leggero colpo di tosse. E nella commozione, si seguono con apprensione gli ultimi, vibranti istanti.
Magnifica poesia, non sembra che a scrivere quelle pagine struggenti sia un uomo, bensì una creatura fragile, sensibile alle carezze del mondo quanto sensibile all'atmosfera rarefatta della prigione cui la "comoda sordità del padre" l'ha relegata. La necessità, la perdita della madre, tutto concorre a condannarla alla sofferenza estrema, lei che è così affamata d'amore, lei che per solo guardare un momento l'oggetto di tanta passione è disposta ad essere serva nel mondo dei vivi, piuttosto che regina nel regno dei morti (parafrasando la celebre frase di Milton).
Un libro che si legge tutto d'un fiato, in apprensione, lasciandosi travolgere dalle emozioni, dalle vibrazioni dell'anima, pendendo dalle labbra di Maria, baciando le pagine su cui ha incautamente riversato l'amore, un amore magnifico a vedere e doloroso a sentirsi. Si ha voglia di tener stretto il libro al petto per sempre, posando baci e lacrime sulle sue frasi dolenti, come ha fatto Maria sulle reliquie del suo unico amore.
Di Hellionor
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