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Recensione Carmelo Bene

Carmelo Bene

Intervista

DI Doriano Fasoli

Conobbi Deleuze a Parigi alla fine del ‘77, ero lì per il Romeo e Giulietta. E conobbi anche Pierre Klossowski, Lacan, Foucault, altra bella perdita... Gilles Deleuze era decisamente straordinario. Fu il primo ad occuparsi seriamente di Masoch e lo tirò fuori dalla patologia mentale. E del resto la stessa cosa andava fatta con Sade. Entrambi diedero alla follia il valore della hybris, della nobile mania e non certo quello della malattia mentale. Attentavano al pensiero, non alla verginità di qualche poveretta...”. Ancora: “Mi sono logorato sulla strumentazione fonica amplificata per stravolgere il concetto di soggetto. E qualche imbecille ha ricordato: ma questo lo abbiamo già letto in Nietzsche! Ma non c’entra niente, perché quello che Nietzsche ha scritto nessuno lo aveva mai sentito, nessuno prima che io arrivassi si era trovato davanti all’irrappresentabile”.
Sono parole di Carmelo Bene che ci accoglie con amabilità nella sua casa romana (in pieno Aventino) dove si respira – appena entrati – l’odore dolciastro delle sigarette alle erbe medicinali; e tra un numero sterminato di libri e caraffe di whisky, specchi, sofà e cornici, tele di Dalí e disegni (di vaste dimensioni) dell’esegeta di Sade e di Nietzsche, Pierre Klossowski appunto, ha inizio la nostra conversazione.

“L’elettronica è il nostro secolo, non si scappa. Sono convinto che oggi Verdi l’avrebbe usata, Puccini l’avrebbe usata, a parte Richard Strauss che la usava, o Skrijabin che alla fine dell’Ottocento aveva creato l’organo per la musica visiva, come la chiamava lui” – spiega il cinquantanovenne artista salentino, del quale l'anno scorso sono uscite le Opere nei classici Bompiani. Dopo una breve pausa, egli riprende scoraggiato: “Ma evidentemente la qualità non paga, si continua a darle addosso, si cerca in tutti i modi di screditarla. Come si può pretendere che il pubblico conosca gli infiniti vantaggi che il mezzo televisivo offre dal punto di vista tecnico, quale ruolo ha il montaggio, qual è il significato della macchina ferma e del forte contrasto dei piani... Come si può pretendere che segua il discorso con un minimo di interesse quando si parla di eliminazione dei magenta, dei viola, del colore dei bianchi e dei neri con la eliminazione dei pastelli, di strapotenza dell’audio; che sappia che cos’è l’ampex e quella che viene chiamata “tosatura” e così via, se nessuno glielo ha mai insegnato? Dicono: il pubblico non vuole sapere niente di queste cose. Non è vero affatto, è un errore madornale. Piantiamola con queste puttanate. E intanto continuano a propinargli giorno e notte le stesse miserie di sempre, gli stessi scemeggiati, badando troppo ai contenuti, ai contenuti pseudopolitici, lavorando troppo sui campi medi. E lavorare su campo medio è lavorare sulla mediocrità. Ecco perché la maggior parte della gente ancora pensa che la tecnica sia un fatto neutro e perché la televisione le appare soltanto ancora come un canale di registrazione e di emissione, da utilizzare – così come è ridotto – come un qualunque elettrodomestico, che Eduardo De Filippo giustamente metteva in contatto con un aspirapolvere”.

“I critici – prosegue Bene ininterrottamente – hanno poi le loro belle responsabilità. Non sono degni studiosi e anche quando lo sono, nel momento in cui sono obbligati a recensire – non si sa bene poi da chi – diventano mediocri. Non riescono a svincolarsi dalla tematica di qualcosa o dalla immagine fine a se stessa. Invece vogliono solo immagini... Gilles Deleuze nel suo gentile saggio in cui mi chiama “la rigueur, par excellence” [in Un manifesto di meno] oltre ad osservare che i miei film non sono teatro filmato, bisognerebbe analizzarli particolarmente.* È vero, ma non l’ha fatto quasi nessuno, esclusi Fofi, credo, e Maurizio Grande. La verità è che nessuno sa che cazzo vuol dire cinema, o televisione o che quando si fa la televisione non si deve fare cinema. Ma come: se c’è qualcosa che io ho portato nell’uno e nell’altro (oltre che in teatro) è la tecnicità (da téchne,* che è l’arte per i greci)... l’al di là dell’arte fino all’automatismo, fino ed oltre la perfezione tecnologica. Per il Riccardo III montavo nella stanza attigua a quella di Antonioni, al quale – allora alle prese con Il mistero di Oberwald – di tanto in tanto davo suggerimenti proprio a tal proposito. Facevo turni di otto-nove ore al giorno e ho impiegato nove mesi e mezzo per il montaggio, rimettendoci del denaro, perché non viene pagato il montaggio... E il Don Giovanni, per esempio? Per più di una settimana, di giorno e di notte, io e Mauro Contini, il montatore, lo abbiamo ritoccato con gli inchiostri di china Kodak, a mano, fotogramma per fotogramma. Insomma ho fatto pazzie io, buttato “argento”, fatto i “bagni”, dormito negli stabilimenti... Ho svuotato la mia esistenza, mi sono giocato tante vite ma la vita non l’ho vista mai”.

Irrefrenabilmente, Bene prende poi – nonostante “il mio astio per il cinema, questo lecca-lecca sociale” – a enumerare mille altri espedienti tecnici cui fece ricorso, mille altre trovate geniali, per arrivare a parlare del primato incredibile di 4200 inquadrature che vanta Salomè, con quell’orgia di colore così “sfondato”, così musicalmente ed eroicamente gestito (come scrisse Sergio Colomba) ottenuto tecnicamente attraverso lo scotch-light, i parchi-lampade viaggianti e le macchine da presa continuamente in movimento.
Difficile trascrivere, rispettandolo fedelmente, il “parlato continuo” di Bene, le sue numerose citazioni a memoria, il fluire del suo discorso. E dopo aver ricordato l’amicizia che lo legava al regista brasiliano Glauber Rocha, con il quale s’intendeva (“girava invertendo campo e controcampo... Antonio das Mortes non è tutto forse allo stesso livello, ma ha almeno venti minuti di cinema vero”), Bene conclude il nostro incontro non mancando di far notare a coloro che parlano “stoltamente” di estinzione che “tutti i film sono destinati a deperire. Non ci sarà più un film tra qualche anno, tra venti proprio nessuno. Per un motivo tecnologico, però. Non ci saranno quelli di Bertolucci, non ci saranno quelli di Fellini... E chi dice che i miei film sono in estinzione lo dice da ignorante. Se lo voglio lo sono, non per il fatto che ho girato a 16 millimetri”.

“...Sarebbe interessante tenere un seminario proprio su questo... Da quando è entrato il consumo, ormai una cinquantina di anni fa, è tutto provvisorio, l’estinzione esiste per ogni film che non sia girato con la vecchia macchina Technicolor in tre bande, in tre pellicole che vanno contemporaneamente, né più né meno. Anche il magnetico si smagnetizza da sé. I film di Ejzenstejn (che vuotava le casse dello Stato) resteranno eterni: il colore de La congiura dei Boiardi sarà sempre quello, perché è girato appunto in tre pellicole. Per salvare il cinema commercialoide invece bisognerebbe fare il procedimento inverso... riseparare subito, finché c’è un buon negativo, un interpositivo buono, i tre colori fondamentali, eccetera... Ma fare questo non vale la pena per niente e per nessuno. Salterebbe la finanza di uno Stato... la nostra è già saltata e non c’è stato bisogno del cinema.

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