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Recensione Jalal al Din Rumi Mathnawi: il grande poema mistico persiano.
Gialal alDin Rumi (1207-1273), grande poeta mistico persiano - detto anche Mawlana - ha influenzato il pensiero orientale e l’intera letteratura mistica (la “Mistica” è quella particolare esperienza spirituale che prevede la conoscenza profonda del divino e la sua contemplazione, e consente di raggiungere così la più alta perfezione dell’anima umana). L’Unesco, per celebrare gli 800 anni della nascita di Rumi, ha decretato il 2007 come il suo anno mondiale.
Figlio di un sufi mistico, dopo molto peregrinare e dopo la morte della madre Gialal alDin si stabilì a Konya (oggi città sacra turca); insieme al padre vi aprì una scuola religiosa che egli stesso diresse con grande saggezza dopo la morte di lui. Nel 1244 Gialal alDin incontrò un uomo benedetto, Shams alDin (da lui soprannominato «Sole della religione»), un sufi errante che lo introdusse ai misteri del misticismo. Per mesi, Gialal e Shams vissero insieme dimenticando tutto, sino a quando Shams fu cacciato e quindi scomparve (probabilmente ucciso da persone dell’“entourage” di Gialal alDin). Questo episodio segnò Rumi così profondamente da farlo divenire un grande poeta.
Il suo capolavoro è il poema “Mathnawi”, uno straordinario testo esoterico e simbolico, di non immediata comprensione ma di notevole forza espressiva, considerato da alcuni islamici come un vero e proprio “Corano in versi persiani”. E’ costituito da circa 51.000 versi distici raccolti in sei libri, contenenti storie simboliche, vere e proprie favole orientali, aneddoti e proverbi che attraverso la narrazione fantastica riescono a trasmettere un messaggio etico-filosofico ricco di tolleranza e amore universale per l’uomo e per l’essere divino.
Nel 2006, la Bompiani (editor Elisabetta Sgarbi) ha pubblicato questo “Poema del Misticismo Universale” nella splendida traduzione italiana a cura di Gabriele Mandel Khan e Nur-Carla Cerrati-Mandel, con la prefazione di Halil Cin: si tratta della prima traduzione integrale in lingua italiana, che ha avuto un discreto successo editoriale (anche all’estero). Nell’intenzione del poeta mistico, esso avrebbe dovuto essere il «disvelatore dei misteri per giungere alla Verità... il rimedio per i cuori malati e il consolatore dei dolori... una preghiera che include tutte le categorie del creato...». Nei suoi versi, colmi di estatico ardore e astratta semplicità, l’amore è considerato la religione più alta con la quale si trova il rimedio a qualsiasi male, e dalla quale nasce quella «sete su sete» che fa raggiungere l’Essere supremo. In un brano del I Libro del poema, parlando dell’amata, Gialal alDin scrive: «L’uomo disse: “Adesso ho smesso di oppormi a te: hai tu l’autorità: estrai la spada dal fodero. / “Qualsiasi cosa tu ordini di fare, obbedirò, non starò a considerare neppure se l’ordine è buono o cattivo. / “Diventerò inesistente nella tua esistenza, poiché sono il tuo innamorato: l’amore rende cieco e sordo.». Il III Libro, pieno di parabole e allegorie, è dedicato all’amato che, pur temendo di tornare, dall’amore è costretto a ritornare: «...Dopo dieci anni la nostalgia lo rese incapace di sopportare i giorni di separazione... “Non darmi consigli poiché i miei lacci sono fortissimi. / “I miei lacci son più forti dei tuoi consigli…». E l’Amato attira l’innamorato che neanche pensa all’amore e non ci spera ma alla fine lo trova: «...Quando più grande è lo sforzo di nasconderlo, tanto più l’Amore alza la testa come uno stendardo. Mi dice: “Guarda son qui”.». In un brano del V Libro, un’innamorata chiede all’amato chi ami di più, se lei o se stesso, e l’innamorato risponde di essere morto a se stesso e di vivere soltanto grazie a lei; egli ama se stesso perché ama lei, e se ama lei ama se stesso («Io sono stato annientato come una goccia d’aceto in quell’oceano di miele che tu sei.»).
Pur trasmettendo delle esperienze mistiche, l’espressione della sua poesia è fresca e immediata: i sogni irreali e le immagini reali della vita quotidiana si mescolano in un intreccio ricco di fascino e suggestione. Si racconta che molti suoi versi siano stati scritti mentre danzava in preda all’estasi favorita dal rombo dei timpani, dal suono dei piatti e dalla nenia del flauto, o anche soltanto dal dolce rumore dello stormir delle foglie e dello scorrere di un fiume. Da questo suo comportamento prese origine la danza estatica in vortice (da destra a sinistra, «intorno al cuore» e rivelatrice di verità) dei Dervisci Danzanti, vestiti di una lunga veste bianca (che si apre a corona e rappresenta il sudario), di un mantello nero (che simboleggia la tomba) e di un alto cappello cilindrico di feltro (che rappresenta la pietra tombale). I Dervisci, al suono della musica, roteano su un piede solo con le braccia aperte, una diretta al cielo e l’altra al suolo (stabilendo così come un ponte immaginario tra il divino e l’umano); e la danza si conclude poi con la lettura di alcuni versetti del Corano.
Di Silvia Iannello
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