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Recensione Paolo Mazzocchini

Paolo Mazzocchini

Studenti nel paese dei balocchi

Roberto Carnero, in L'UNITA', 6 settembre 2007:
Mentre sta per cominciare un nuovo anno scolastico, con i problemi e le questioni di sempre ancora sul tappeto, un insegnante di scuola secondaria superiore ha preso carta e penna per fare una cosa piuttosto singolare: scrivere ai genitori dei suoi alunni. Ne è uscito un libro vibrante e preoccupato, che è un pamphelet volto a mettere in guardia dalla pericolosa deriva che, a suo parere, ha preso una buona parte della scuola italiana. L’autore si chiama Paolo Mazzocchini, insegna latino e greco in un liceo e il libro s’intitola “Studenti nel paese dei balocchi” – lettera di un insegnante a un genitore (Aracne editrice, pp. 78 - 7,00 €). La sua tesi è la seguente: attenzione, cari genitori, i vostri figli, nella scuola d’oggi, rischiano di diventare sempre più asini. Come nella favola di Pinocchio: peccato che in questo caso il “paese dei balocchi” trovi il proprio spazio tra le mura dell’edificio scolastico, complici alcune recenti innovazioni decisamente poco felici. L’autore potrà sembrare a qualcuno un nostalgico. In realtà è, prima di tutto, un docente innamorato della propria materia e della propria professione. La sua amarezza deriva appunto da questo. Soprattutto nel constatare come la scuola, intesa in passato quale luogo in cui si trasmette il sapere, è sempre più considerata alla stregua di un’azienda, in cui gli studenti sono, più o meno esplicitamente, equiparati ad utenti (per non dire clienti). È a partire da qui che si realizza quella che l’autore chiama “l’asinificazione indolore degli studenti”. Un processo che avviene, scrive Mazzocchini, “non per loro diretta responsabilità, bensì per colpa manifesta e flagrante di chi, la scuola, la governa e la dirige”. Molti sono gli obiettivi polemici del professor Mazzocchini: le ore di cinquanta minuti, il POF (piano dell’offerta formativa), i debiti e i crediti scolastici, gli IDEI (interventi didattici educativi integrativi, volgarmente corsi di recupero), l’aggiornamento di facciata, la mania dell’informatica a tutti i costi, il nuovo sistema di reclutamento dei docenti (che ai vecchi concorsi a cattedre ha sostituito bienni di specializzazione post lauream, l’esame di maturità continuamente “riformato”, un’autonomia che si traduce nell’affannosa ricerca, da parte dei capi d’istituto, di aiuti finanziari e sponsorizzazioni presso privati. Decisa la sua difesa della scuola pubblica, visto che negli ultimi anni mentre gli stanziamenti in finanziaria per la scuola di stato sono rimasti fermi (quando non sono addirittura calati), i poli privati si sono avvantaggiati di tutta una serie di facilitazioni. I toni del professor Mazzocchini sono accesi e a volte forse un po’ troppo esasperati. Però, oltre alle critiche, c’è anche una parte costruttiva che ci sembra interessante. L’autore formula, infatti, un’interessante proposta: il coinvolgimento delle famiglie nella valutazione degli insegnanti. “Vi si potrebbero coinvolgere gli alunni (più maturi) dell’ultimo anno e, magari, degli ex alunni; ma anche i genitori di quegli stessi allievi. Si dovrebbe costituire così una commissione mista genitori, allievi, dirigenza, ispettori (o docenti universitari) con pari autorità di giudizio di ciascuna rispetto alle altre”. Così i migliori potrebbero essere gratificati, se non economicamente, almeno moralmente. “Da alcuni anni”, scrive Mazzocchini, “nutro un sogno, anzi un miraggio: quello di una scuola in cui non vi siamo più progetti, feste, celebrazioni, commemorazioni, pubblicità, orientamento, e tutte le restanti decorazioni promozionali dell’autonomia; quello di una scuola nella quale la centralità dell’insegnamento svolto ai più alti livelli qualitativi sia promossa, incentivata, salvaguardata; quello di una scuola, insomma, in cui si torni a fare, a tempo pieno, veramente scuola”. E dichiara la propria fiducia in chi la scuola la fa, cioè i professori: perché “una scuola fatta è guidata da bravi insegnanti non ha bisogno di chissà quali riforme calate dall’alto, perché sa riformarsi automaticamente da sola”. Qualcuno vuole dargli torto? (R.Carnero)

Gennaro Lubrano di Diego, in www.ALBOSCUOLE.it, 3 Agosto 2007
Chi volesse penetrare nell’universo scolastico ben oltre le trite scurrilità che si leggono sui giornali, aggirando finanche le vacue mitologie con cui il discorso pubblico sulla scuola di volta in volta appare impastato, dovrebbe senz’altro volgersi alla lettura di questo agile ma denso testo di P. Mazzocchini. L’autore, insegnante di latino e greco nei licei oltre che studioso apprezzato della civiltà e letteratura classica, non è nuovo ad esporsi con salace ironia e disincantata franchezza sui temi della formazione e dell’istruzione e conosce dall’interno la slavina educativa che equivoche filosofie pedagogiche hanno oramai da decenni imposto alla scuola. Tuttavia, rispetto alle passate performance in cui la pungente ironia e il sarcasmo irridente lasciavano poco spazio alla riflessione organica e alla meditazione sistematica sui molteplici punti critici della formazione nella scuola superiore, quest’opera si caratterizza per la certosina capacità dell’autore di individuare e demistificare la vera e propria regressione culturale a cui l’istruzione sta andando incontro in Italia anche per effetto di interventi estemporanei, provinciali e che risentono di acritiche e anglofile volgarizzazioni nel nostro contesto sociale di filosofie della formazione maturate altrove, a contatto con esperienze sagomate su opinabili modelli aziendali. E infatti, aziendalese e didattichese sono i bersagli polemici contro i quali Mazzocchini si scaglia, facendo valere al tempo stesso una naturale vis polemica coniugata con un’esposizione chiara e persuasiva degli elementi di fatto e del proprio punto di vista, che rende comprensibili le distorsioni delle politiche educative in Italia anche ai non addetti ai lavori e a chi presta un’attenzione non assidua ai problemi della scuola. La veste formale con la quale Mazzocchini presenta le sue riflessioni è quella della Lettera di un insegnante ad un genitore, che l’autore immagina per lo più ignaro dei disastri formativi che si perpetrano sulla pelle del figlio anche se ben disposto ad accogliere l’accorato appello dell’autore a collaborare per invertire una tendenza foriera di sciagure supplementari e negatrice tout court del valore educativo della nostra tradizione culturale. Ai genitori, accreditati per lo meno di una certa benevolenza e considerati alleati dei docenti – per lo meno di quelli più avveduti e consapevoli -, l’autore rivolge un discorso didascalico ma denso, nel quale la mutazione genetica dell’allievo in utente, le trasformazioni/involuzioni del ruolo del Preside, i mortificanti meccanismi del reclutamento degli insegnanti, la volgare proliferazione di insulse catechesi didattiche, così come l’archiviazione della lezione ordinaria a favore di un carosello di iniziative inconcludenti ma supportate da uno sfacciato e impudente marketing vengono presentati come i capitoli essenziali di un sistematico piano di disarticolazione della scuola e di espulsione della cultura da quella che rimane una delle principali agenzie formative, ridotta, per lo più, al rango di veicolo di logiche mercantilistiche e sordamente burocratiche. Di fronte a tutto ciò, Mazzocchini non si limita alla diagnosi amara ma esprime anche misurate proposte di correzione e inversione di rotta, rivendicando al docente il diritto – molto più fondato rispetto a quello di chi in una scuola e in una classe non ha mai messo piede – di formulare proposte per evitare che la nobile professione dell’educare venga stravolta in un qualcosa da cui la cultura è scientificamente espulsa. (G. Lubrano Di Diego)

Gianfranco Franchi, in www.Lankelot.it, 24 Settembre 2007
Secondo, caustico pamphlet satirico del professor Paolo Mazzocchini sulle degradanti condizioni della scuola pubblica, post riforme americaneggianti sia uliviste che forziste, “Studenti nel paese dei balocchi” è un formidabile veicolo di informazioni per quanti, tra i genitori e tra gli intellettuali della nuova generazione, intendano assumere coscienza della decadenza dell’istituzione scolastica. Per correggere il tiro – a questo mira, infine, lo scritto del filologo di Castelfidardo – è necessaria un’azione congiunta: docenti e utenti. In un’epoca che tende a trasformare gli studenti in utenti (quindi: consumatori), l’insoddisfazione degli utenti (e delle loro famiglie) potrebbe essere l’elemento devastante, destinato a determinare un rovesciamento degli attuali, deprecabili valori-guida (tra cui l’odioso “impresa”. Funebre, e brianzolo). Il consumatore, in una società americanizzata, è una figura centrale. Approfittiamone.
Per riuscire a dare voce all’insoddisfazione delle famiglie degli utenti è fondamentale far circolare informazioni, notizie, dati. Risvegliare le coscienze è un compito complesso, vivendo in uno Stato marionetta d’una nazione egemone; servono studio, informazione, dedizione, disciplina, decisione. Allora trovar scritto, a chiare lettere, che il nuovo SSIS è una tecnica statale poco elaborata per tassare (3000 euro in due anni) i futuri insegnanti, senza particolari meritocrazie, senza adeguata selezione, senza opportuna formazione; che la nuova scuola è progressivamente caduta preda degli sponsor, e delle attività da scuola Mary Poppins organizzate per “modernizzare” la formazione degli allievi; che i giorni effettivi di lezioni sono stati ridotti di un quarto, da 200 a 150, e che le lezioni addirittura durano dieci minuti in meno, mentre i soli esami della Maturità sono oggetto di sublimi maquillage dal ministro di turno… trovare scritto tutto questo, dico, senza perifrasi e senza formidabili calembour, è onestamente formidabile.
Vi presento quindi uno strumento di lotta. Vogliamo restituire centralità alla formazione delle nuove generazioni? Vogliamo restituire dignità al ruolo del docente? Vogliamo scacciare le infiltrazioni private dalle scuole pubbliche? Vogliamo ripristinare il principio-guida della selezione degli studenti adatti agli studi universitari, abolendo l’assurda idea che chi paga debba accedere a dei titoli, non per i talenti o per la competenza, ma perché l’Università “servizio” è diventata? Vogliamo finalmente giudicare esecrabile la trasformazione delle occupazioni politiche studentesche (comuniste) in co-gestioni, infine in grottesche “Settimane della Cultura” con lezioni sugli ufo e sulla parapsicologia?
Vogliamo, in altre parole, restituire importanza al nostro futuro?
Possiamo e dobbiamo ripartire, allora, da un libro lucido e livido di rabbia e incisivo come questo.
Confido al lettore che leggendo questi otto capitoli, accompagnati da una introduzione e da un post scriptum, mi sono sentito vecchio a ventinove anni. Vengo da un Liceo Classico sparito nel nulla. Non esiste più la nostra maturità, non esistono più i nostri voti (Mazzocchini spiega che vengono gonfiati, secondo le nuove direttive, includendo stravaganti, yankee “credits” per attività sportive, artistiche o ludiche extra-scolastiche. Raccapricciante), non esistono più i giorni di vero, duro, emozionante e romantico ambientamento, sostituiti da una settimana ad hoc per sostenere animule vagule blandule ad accettare l’idea di essere entrati a scuola (come fosse Regina Coeli…). Piuttosto sono sacre le gite, le assemblee, la settimana di orientamento pre-universitario, gli stage lavorativi (al Liceo Classico?) per gli studenti del quarto e del quinto anno; piuttosto è fondamentale la “settimana culturale”, un’iniziativa dal sapore vagamente basagliano in cui non di rado gli studenti tengono lezione ad altri studenti (e magari ai docenti…) sugli argomenti più disparati: magari a proposito di quell’attualità che pervade televisioni, web, quotidiani, radio. Tutto. E quindi, orribilmente, adesso infesta anche la scuola.
Insegna Mazzocchini: chi non ha gli strumenti e le conoscenze adeguate per decifrare quegli eventi potrà parlarne quanto crede. Non saprà interpretarli.
Non esistono più gli esami di riparazione: sostituiti da misteriose verifiche settembrine, dall’esito scontato (promosso!), e sollevati da poco popolari, instabili lezioni di recupero, in orari infausti. Leggo di scioperi – tre all’anno – per questioni grottesche come l’eccessiva esposizione al sole di un’aula. Leggo e mi accorgo che la questione è semplice: allo Stato interessa che le scuole (e le università…) siano popolate da tanti “utenti”. Perché versano quote. Allo Stato non interessa la qualità della formazione: interessa la quantità degli euro versati; e di quelli risparmiati, previa immissione di fondi privati per finanziare varie necessità (a quale prezzo? E in cambio di che cosa? E imponendo quali nuovi paradigmi?).
Allo Stato, in questo momento, non interessa – spiega a chiare lettere Mazzocchini – formare liberi pensatori: questo Stato forma consumatori. Mi raccontava, giorni fa, la mia ex professoressa di Storia, della filosofia posticcia e italiota d’un suo scadente allievo; l’utente scrisse, nel tema della maturità, che voleva crescere per battersi per “diritti e privilegi”. E andiamo, no?, forza Italia, che stiamo benissimo. Proprio.
“Studenti nel paese dei balocchi”: un insegnante di scuola superiore si rivolge ai genitori di un quattordicenne. La scuola di Pinocchio, ricorda l’autore, era un’istituzione guardata con paura e forse eccessivo rispetto; la nuova scuola è l’opposto, s’ispira al Paese dei Balocchi: è la “asinificazione indolore degli studenti”. Tutti devono “passare di livello”: con la minor fatica possibile, opportune e ricche gratificazioni, suprema deresponsabilizzazione. Perché l’istruzione, a questo punto è chiaro, adesso si può comprare. Con la sola presenza. La partecipazione è moneta.
I nuovi presidi sono dirigenti (!): dallo stipendio triplo rispetto agli insegnanti (!); responsabili unici di mega-scuole da 1000 allievi e oltre 100 insegnanti. Con due mansioni-base, badare alla crescita degli iscritti e alla ricerca dei finanziamenti. Privati. Le antiche mansioni? Impossibile gestirle, tendenzialmente. E quindi delegate ai docenti.
I nuovi presidi hanno un approccio lassista e comprensivo nei confronti degli utenti; gli insegnanti non aziendalisti (purtroppo di azienda dovremmo parlare, con la c.d. “autonomia” delle scuole) mantengono un ruolo rigoroso, educativo. Ritrovandosi, magari, additati come disfattisti, perché incuranti dell’immagine della scuola. Immagine: ludica! Assemblee, gite, incontri con gli sponsor, attività extra-scolastiche…
L’istruzione e la formazione, da diritto, sono diventati pretesa: con le più svariate semplificazioni. Umiliando i docenti preparati – non più selezionati per Concorso, ma per tassa versata alla SSIS – e allevando generazioni esperte nella socialità e avvezze alla comodità, estranee al sacrificio, alla disciplina, alla fatica: demotivate, estranee alla critica, estranee al libero pensiero. Consumatrici, in compenso. Con rare eccezioni.
Sono giovani addomesticati e parcheggiati, in attesa d’essere assistiti.
I corsi di aggiornamento dei docenti sono periodici ma poco incisivi: informatica, didattica, psicologia: l’aggiornamento vero, spiega Mazzocchini, è “fai da te”. Il quadro è tetro.
Vorrei continuare a parlarne, dell’opera, ma questa vuole essere una segnalazione – entusiastica, e francamente partecipata – e non un nuovo pamphlet. Peraltro, personalmente posso contribuire solo con ricordi datati 1996 (Liceo Classico) e 2002 (Lettere Moderne). Ho schivato per un pelo la nuova scuola superiore (e la nuova università) americana che ha sporcato il nostro Paese: io sono modernariato vivente. Quando scelsi Lettere la SSIS non esisteva, noi sceglievamo il piano di studi per poter insegnare nei Licei, previo concorso. Illusi. Lo Stato ci ha cambiato le carte in tavola: poco prima della fine. Per rappresaglia, ho preso un’altra strada. Io non ho versato i 3000 euro per la SSIS. Pensando non soltanto fosse un’ingiustizia, pensando fosse un dramma per i precari, che nel libro Mazzocchini sostiene; per quegli intellettuali docenti che non hanno contratto degno, e non hanno stabilità e prospettiva: con grave danno alla libertà personale e alla serenità nell’insegnamento.
Perché dovevo diventare “concorrenza sleale” per dei colleghi meno fortunati?
La mia protesta, poco generazionale e poco condivisa, è stata voltare le spalle allo Stato, ma non alla scuola e non al futuro. E al futuro della scuola penso, come ogni futuro padre e ogni cittadino cosciente che i figli dei compatrioti saranno, in un certo senso, figli di tutti; se cresceranno male, governeranno peggio di quei maiali – in senso orwelliano, sia chiaro – che s’alternano da un pezzo. Evitiamo altre metamorfosi. Diamo ascolto ai docenti d’un’altra generazione: quelli che non possono dimenticare cos’era la Scuola, e che non possono arrendersi a quel che è diventata.
Diamo ascolto, e diamo sostegno.
Allo Stato serve un Corso di Recupero. Della Tradizione. Questa l’impresa. (G.Franchi)

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