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Recensione Carson McCullers Il cuore è un cacciatore solitario
Il profondo desolato sud americano dell’incomprensione e dell’odio razziale in Carson McCullers
Quaranta anni fa moriva la grande scrittrice americana Carson McCullers, nata in Georgia nel 1917. Vissuta da bambina a contatto delle contraddizioni e dei conflitti dell’oppressivo e desolato mondo del Sud americano, fu marchiata a fuoco da questo ambiente triste, che nei suoi testi tornò e ritornò ossessivamente (ed era la stessa provincia abulica in disfacimento descritta da W. Faulkner in “L’urlo e il furore”). Donna infantile e fragile, abile pianista col desiderio di diventare concertista, a 15 anni si ammalò di febbre reumatica ed ebbe diversi ictus invalidanti che la portarono giovanissima a essere appena in grado di pestare con un sol dito sui tasti di una macchina da scrivere. Non sorprende che molti suoi personaggi senza tempo né luogo, fossero infermi o tarati psichici, esclusi o emarginati, patetici o talora grotteschi.
Trasferitasi a NY a 17 anni, nel 1940 ad appena 23 anni, pubblicò il suo primo romanzo “Il cuore è un cacciatore solitario” (scritto in un momento di grave infermità), nel quale con potente lirismo svolge il tema dell’incomunicabilità e del desiderio sempre vano di non essere soli e di poter essere almeno ascoltati, se non proprio compresi. Quattro protagonisti si muovono intorno alla figura del sordomuto John Singer, un mite e tranquillo orologiaio (e proprio il padre di Carson lo era), passivo interlocutore scelto come depositario delle angosce di tutti gli alienati e disadattati di una piccola città del Sud. Prigioniero del silenzio, John non può ascoltarli ma, pieno d’umana comprensione (ne giustifica anche la violenza e i vizi con i quali tentano di contrastare la solitudine), vorrebbe farsi carico delle loro pene. Tenta di leggere faticosamente le parole sulle loro labbra e di rispondere col movimento delle mani affusolate da cesellatore, per alleggerire il fardello del loro infelice destino («Il ricco lo considerava ricco quanto lui, il povero lo paragonava a se stesso… Ognuno descriveva il muto quale lo voleva»). Paradossalmente, col suo silenzio riesce a dare una qualche risposta alle urla represse di quelle anime: i suoi occhi sembrano comprendere tutto («E la morte, così difficile. E la nascita, così facile. E l’eterno problema delle razze…») e tutto custodire (segreti, dolori, aspirazioni e sconfitte). Tra il muto e i quattro comprimari (un vedovo proprietario di un piccolo caffè, una strana ragazzina con la passione per la musica, un fallito agitatore socialista col vizio dell’alcol e un medico nero marxista e disilluso) si stabilisce un delicato equilibrio che finirà purtroppo tragicamente: Singer, perduto l’amico sordomuto, si sentirà lui stavolta tanto solo da spararsi. Da questo romanzo fu tratto il film di Robert E. Miller (1968) con Alan Arkin e Sondra Locke.
Seguì il breve romanzo “Riflessi in un occhio d’oro” (1941), che divenne il film crudo e appassionato di J. Huston (1967) con Elizabeth Taylor e Marlon Brando. Il romanzo, ambiguo e scandaloso, è ambientato in un noioso campo militare della Georgia e mostra l’evolversi di un groviglio di nevrosi nell’ambito di un bizzarro gruppo di persone: una creatura disinibita e selvaggia, sposata a un brutale e misogino maggiore (che nasconde un’omosessualità latente) e amante di un ufficiale (dal quale è attratto anche il marito), la cui moglie è un essere fragile e tormentato; c’è pure un giovane soldato introverso e voyeur che cavalca nudo di notte: e tutti i personaggi non sanno né amare né comunicare e si legano in una tragica ragnatela di torbide relazioni.
Questi due romanzi furono un evento letterario di gran successo; Carson fu celebrata come una scrittrice dal talento superlativo e le furono riconosciuti diversi premi della critica. I successivi libri e racconti furono all’altezza dei primi testi e tutti dei bestseller: “Invito di nozze” (1946) - da cui fu tratto uno spettacolo teatrale premiatissimo che furoreggiò a Broadway e un film di Fred Zinnemann (1952) - che narra della crisi esistenziale di una ragazzina, Frankie, orfana e alla vigilia del matrimonio di un fratello più grande al quale è legatissima; “Ballata del caffè triste” (1951) - dal quale pure furono tratti una commedia e un film per la regia di Simon Callow (1990) con Vanessa Redgrave e Rod Steiger - ove nel dolore per l’amore impossibile da ricambiare agiscono i tre improbabili protagonisti di un drammatico triangolo amoroso di gusto felliniano (un donnone androgino e scorbutico, un nano deforme e l’ex-marito galeotto); e “Orologio senza lancette” (1961), dominato dalla lacerazione dell’odio razziale e dall’angoscia della morte (quest’ultimo lavoro non ebbe molto successo e gettò nello sconforto la scrittrice, abituata al consenso generale).
Carson, in effetti, ha scritto la storia della sua vita; la tragedia e l’ambiguità del suo privato superavano di molto quelle simili dei suoi personaggi: a 22 anni aveva sposato il militare-scrittore fallito J. Reeves McCullers (entrambi erano bisessuali e talora innamorati della stessa persona), divorziarono nel 1941 (il marito, mantenuto insieme ai suoi amorazzi da Carson, aveva falsificato degli assegni), si risposarono nel 1945, Carson che soffriva d’alcolismo tentò il suicidio nel 1948, furono entrambi sull’orlo di un duplice suicidio nel 1953, e nello stesso anno Reeves (lasciato da lei definitivamente), s’uccideva in un hotel parigino. Un’angosciosa rappresentazione di questi episodi di vita si ritrova nel dramma “La radice quadrata del meraviglioso” (1958). Negli anni ’50, la scrittrice visse a Parigi e strinse amicizia con Truman Capote e Tennessee Williams, autori sulla sua stessa lunghezza d’onda e nella tradizione “gotica” del Sud americano. Intanto, la sua salute peggiorava in mezzo a depressioni (e cure psichiatriche), pleuriti, polmoniti doppie, angine e ictus devastanti che la costrinsero infine su una sedia a rotelle, impedendole di continuare a scrivere. Negli ultimi mesi tentò faticosamente di dettare la sua biografia: la sua «canzone interrotta». La vita infelice e disperata di questo astro brillante della letteratura fu stroncata definitivamente da un grave ictus emorragico: moriva il 29 settembre del 1967 dopo 47 giorni di coma profondo.
Di Silvia iannello
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