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Recensione P. Luigi Bacchini Contemplazioni Meccaniche e Pneu
Le scritture naturali di Pier Luigi Bacchini
Introduzione
La voce poetica di Pier Luigi Bacchini, nato a Parma nel 1927 e autore di versi fin dal 1954, si presenta come una delle più fresche e felicemente autonome della nostra contemporanea poesia. Una lirica giovane e tesa, meditativa ed energica, esce dalle Scritture vegetali (1999), ai cui splendidi esiti viene data maggiore ampiezza nei versi delle Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (2005). Sorprende la nettezza di queste pagine mentre ci introducono nell’intrico spazio molteplice della vita, nel suo ciclo di nascita e morte, in cui tutto è continua ripetizione e riproduzione di percorsi, infine destinati a risolversi nella certezza della «voce della scienza/che ha il volto rupestre di Dio». Nella struttura formale di questi testi, composti da versi spezzati ma di ampio respiro, la pluralità degli oggetti rappresentati assorbe l’io lirico facendolo aderire (ma non annullare) al grande affresco naturale in cui «non si può spiegare niente/ma s’intende tutto». Le sospensioni e le incompiutezze che contribuiscono ad accrescere la tensione lirica dei testi spesso lasciano spazio a veri e propri inserti didascalici, descrizioni botaniche e atmosferiche, tenute col tono neutro e scientifico della trattazione naturalistica. Proprio da questo continuo sfregamento di elementi stilistici opposti, da un lato il verso spezzato e dall’altro la prosa tecnico-trattatistica, si produce la scintilla destinata ad accendere il fuoco delle Scritture vegetali. La vera protagonista di questa poetica, che si può a ragione definire lucreziana, è dunque la Natura nelle sue manifestazioni e relazioni con gli eventi umani; la sua presenza, evidente fin dal titolo dell’opera, va definendosi, nel procedere del testo, attraverso lo sviluppo di vari “ambienti tematici” spesso racchiusi in capitoletti compatti ed omogenei.
Inferi strati
Il tempo e la storia sono i temi dominanti dei primi due capitoli, non si pensi però ad uno svolgimento per compartimenti stagni, ogni elemento tematico attraversa trasversalmente l’intera opera ed è presente, seppure in diverso grado, in ogni singolo componimento benchè talvolta stemperato dal canto, dalla meditazione o dall’affresco. Così troviamo che «anche questo mattiniero, il sole, ha i suoi paramenti funebri, ogni sera d’un viola fumigato. Il grande alone. Memorie del crepuscolo» dove l’elemento atmosferico apre il componimento seminando fin da subito un vago senso di morte che viene però immediatamente superato «Non so, Heisemberg, non sappiamo ancora. Aspetto le migrazioni astrali degli uccelli. I pivieri dorati scavalcano le nuvolose colline, e sogno al loro nome di tundra ». Gli uccelli si muovono al passo delle stelle, col mutare della rivoluzione terrestre che determina l’incedere delle stagioni. Il tempo di cui si parla è dunque quello della Natura, delle stagioni che si ripetono ciclicamente, ogni anno allo stesso modo. Un tempo che a furia di ripetersi sembra quasi immobile, bloccato in una fissità atemporale: «Ma qual è il “su” della Terra e il suo “giù”? Qui non c’è né il prima né il dopo». Nell’apparente assenza di tempo e spazio, una volta annullate le coordinate convenzionali di un mondo in cui il tempo si ripete sempre uguale a se stesso, viene da chiedersi che ne è dell’uomo e del suo divenire, del suo glorioso passato e delle sue imprese: «hanno abbattuto la torre di difesa e il terrapieno». I segni dell’uomo e della sua storia sono stati cancellati dal tempo della Natura che, circolare ed eterno, va ben oltre al lineare procedere storico del tempo umano, infatti «il resto è di sempre, cadono ghiande in autunno, si scopre un nido arruffato nei rami d’inverno. E il moto di rivoluzione, per questa carraia, torna indietro certe volte.» Nella Natura c’è un tempo incontaminato che l’uomo non potrà mai conoscere e che a malapena intende, «Odo sussurri costanti (non so dove parlino). E anche le lepri. Hanno uno sguardo spaventato, e dentro c’è la sapienza incontaminata » che è la sapienza della Natura.
Al tempo eterno della Natura si contrappone la finitudine dell’esistere umano, infatti «sono vissuti pastori nel tempo di queste colline» ma non restano che «le ossa cariate delle loro pecore» e laddove scendevano a battagliare le truppe di Carlo VIII ora rimangono solo misere tracce del loro passaggio «e un nostro amico ha ritrovato una spada nel campo arato». L’uomo non lascia che pochi segni, insignificanti di fronte al tempo della Natura, e prima ancora di quelle terre arate, di quei campi di battaglia, di quei pascoli nomadi, prima di qualsiasi evento storico, prima lì c’era il mare. Il tempo in queste scritture naturali è un retrocedere fino all’origine, di cui il mare è simbolo estremo. Mentre «il vento porta l’odore di camini spenti» -l’odore del tempo dell’uomo che si consuma quotidianamente- i bambini che ora raccolgono le conchiglie di quel mare preistorico si allontaneranno presto dal borgo verso un futuro che sembra infinito: «questa prole del contado si allontanerà dalla sfera, tentando lune a cui parlò d’estate ». Lo scatto astrale e il ritorno al mare rappresentano le due facce della poetica temporale di Bacchini: sono entrambi movimenti verso un altrove mitico e perduto (o sperduto) in cui l’uomo può annullarsi o venire annullato, assorbito e bevuto dal tempo.
Il poeta che «non ha mai avuto una misura del tempo» si rifugia in ciò che ancora non ha nome, «le varietà non catalogate» diventano così, nella loro anonimia, momenti di sospensione dal tempo «momenti ormai per me che non rientrano nel futuro», che stanno fuori dall’esistere umano, dai visi «appassiti» delle persone, per aderire al tempo della natura che è un «ripetersi crudo di steli e foglie ».
A furia di retrocedere in profondità le vicende umane perdono di definizione e confine tingendosi quasi di mito, discendendo così il declivio della storia non si trovano che «ombre di uomini senza più voce né sguardo» le cui storie si susseguono accatastate l’una sull’altra come frettolose parentesi del tempo. Ma alla fine della discesa non resta che «il passo cartografico degli uccelli» e «sembra che siano i grandi venti a spostare la luna» fino a quando, col nuovo anno, ancora torneranno gli uccelli e allora «altri uomini saranno venuti quaggiù » come tanti già ne sono venuti, a lasciare i loro esili segni sul grande lunario della natura.
E qui dove il poeta cammina, tra fiori terrestri ed arbusti, «ha galleggiato alla deriva l’Africa» che «ha conficcato il suo rostro, scricchiolando, dentro il fianco d’Europa; e il mare rumorosamente ha innalzato le torri, i denti delle montagne». Questo «sperone d’Africa» è ora la «mitica penisola» d’Italia, culla della civiltà, «dove s’incrinano cupole, a scossoni tellurici, fragili architravi». La natura infatti non ferma il suo moto e non si cura delle umane gloriose vestigia, ancora un passo alla deriva e i continenti schiacceranno la mitica penisola, destinata anch’essa a finire una volta «intasato il suo mare ».
La stratificazione della crosta terrestre è testimone del tempo umano, ne custodisce i segni e ne cela le tracce ma allo stesso tempo palesa l’insignificanza dell’uomo e della sua storia; così le ossa dei Celti e delle prime legioni romane in Cisalpina «sebbene tanto antiche sono contenute in strati superiori perché tra gli inferi strati giacciono ancora ossa di fuggiaschi e combattenti preistorici» le cui «gesta fossili non hanno avuto voce». Ma degli «orrendi barriti di Annibale» e degli eserciti di «Giulio dal mantello rosso» si ode ancora il suono, tanto fresca è la loro memoria nella terra. Anche il tuono dei loro eserciti però è rientrato nel «fondamentale ciclo, e tramutati in azoto carbonio» hanno «lasciato nei prati piccoli fiori gialli». Senza «alcuno spreco» è infatti il «fantastico tempo» della natura che essa distribuisce «un poco per ciascuno » Così la storia dell’uomo, pure negli eventi più gloriosi, non è che un minimo segno nella crosta terrestre, un insignificante strato di sabbia nella tellurica memoria della Natura.
Il «fantastico tempo» ha generato creature mostruose che superano ogni fantasia, rettili dai colli lunghissimi, «ridicoli, giocondi, fatti per scherzo o per meraviglia » e saettanti mostri marini capaci di «ingoiarci meccanicamente» mentre noi, comodi sulle nostre poltrone «ripensando lungamente ai poemi di Troia », fingiamo d’ignorare che tutti solo «dopo qualche milione di anni» non ci troveremo più, se non ricostruiti in qualche museo insieme a quei mostri che noi infastiditi non vogliamo vedere, timorosi di finire risucchiati come loro nel grande «mare galattico».
Il mare, che sia galattico od oceanico, futuro od ancestrale, è momento d’origine e insieme conclusione di una ricerca d’unità fra gli esseri viventi: elemento comune e ventre creatore che ha «le sembianze dello spirito». Il mare infatti determina «somiglianze, ripetizioni. Gli stilemi eterni» e così la conchiglia diventa simbolo «della violenza marina» che produce «le tenere ondulazioni» del guscio, in un «rapporto amoroso tra la sua curvatura e il raggio interno» a formare «con mareggiate orchestrali l’udito della memoria ».
Avviene così che la Natura finisce per coincidere con il tempo stesso, in una condizione astorica di ripetizione perenne nella quale ogni antropocentrismo si annulla e si sperde.
Meccaniche amorose
«Tutti i viventi si amano, e senza freno nella loro regola, gli insetti accoppiati si trascinano per le cortecce- e su fragili carcasse che si disseccano, d’uccello, d’un piccolo topo, ma non fanno impressione, solo un gran vita». Così il rapporto amoroso si presenta come la condizione particolare per la quale i processi evolutivi si realizzano, l’amore, che sempre più sensibilmente s’affaccia nel procedere di questi testi, non è certo quello vagheggiato e sentimentale ma è una manifestazione di meccaniche ormonali, eiaculazioni e impollinazioni atte a realizzare quell’unico scopo necessario alla natura che è il ripetersi della vita. E per questo la natura tenta molteplici strade, feroci agguati primaverili e zanne di stagione, prati freschi e profumo dei gigli, affinchè tutto il mondo si pieghi, e perfino i ghiacci si sciolgano fasciati di aliti carnali. Così «gli uomini e gli animali poi verdeggiano» mossi da «un’antica memoria di toccare ancora la vita della carne» per «un’impalpabile meccanica della coscienza». Tutto «è nutrirsi e secernere», l’amore «è questo far urlare i boschi, incatenati dalle radici, lungo l’aridità del vento quando impollina». «Le piante divorano insetti», e assorbono anche le donne che «si bevono il seme dei maschi». Una forte sensualità attraversa questi testi, una sensualità vitale e incontenibile, morbida e feroce, semplice e voluttuosa. Il poeta però non partecipa più a questo rinnovarsi del mondo, a questo rovesciarsi del tempo nel tempo «se non per verdi automatismi ». Eppure il «fiato della primavera» che arriva finalmente a scaldare questi testi, coinvolgendo il lettore nei turbini di una calda sensualità, sembra dirci il contrario. In questi versi d’immediata freschezza, e scatenanata giovinezza, la tensione vitale finisce per sciogliersi nell’amplesso del mondo dove «il male fa cose e il bene pure e cooperano. Poi il bene vince sul pianeta».
Certo non deve ingannare questa forte sensualità, essa è ancora una volta epifania della Natura e allo stesso modo l’amore degli uomini che, nel devastante gioco dei sensi, non è che l’estremo affermarsi del dominio della Natura, «in un rimescolio di male e di bene, e le urla e i gemiti ci ridanno alle profondità. Spersi atomi senza più nome, ancora in primavera chiamiamo ed amiamo ».
Azoto-carbonio
Ma anche i testi più vitali e sensuali sono attraversati da un sottile senso di morte. Anche la morte però è rappresentata come elemento funzionale alla vita e al ciclo della natura. Non c’è dunque dolore, piuttosto scientifica constatazione di meccaniche necessarie e ineluttabili, e non c’è neanche rivolta contro il destino mortale, anzi il poeta sembra compiaciuto da questo perenne rigenerarsi della natura, di questo rovesciarsi del tempo nel tempo, che fa della morte una parte della vita e non un elemento ad essa estraneo. «E i superni hanno inventato persino la morte. E poi la vita che è sua continuazione. E l’ingranaggio ingegnosissimo del dolore. E tutto è vorticoso e logico come una cupola, o i suoni degli organi ». In questa incuranza della morte sembra di sentire un’eco di quello stoicismo lucreziano che attraversa il del De rerum natura, ideale ascendente di queste scritture. «Quanto alle leggi animali è stata decretata la morte. Così gli artigli e il becco e le dentature la confermano, necessari: non si spreca la morte, mantiene la vita ».
La morte -pur senza connotazioni negative- scatena riflessioni sul tempo passato, sul ricordo e sulla vecchiaia che prevede lucidamente la fine. Il tempo dell’uomo è dietro le spalle, il tempo della Natura è invece tutt’intorno. Ma nel poeta non c’è disperazione bensì compiaciuta accettazione delle cose che, rovesciandosi le une nelle altre, liberano dal giogo del tempo lineare. Il tempo allora cade nel tempo e lo ribalta, il domani è dietro le spalle, il ricordo è memoria di futuro.
Metafisica naturale
Nel suo aggregarsi e disgregarsi continuo, in un eterno ciclo di nascita e morte, la Natura si presenta come l’unico elemento che sembri assunto a una qualche metafisica. In un mondo dove tutto è ripetuto – casuale e voluto viene da chiedersi: ma voluto da chi? In un mondo dove tutto è dominato dalla natura e dalle sue ferree leggi, non sembra esserci spazio per il divino, e quei superni che «hanno inventato persino la morte» sembrano confinati nei loro lontani intermundia, estranei e indifferenti alle vicende umane. Caso e volontà quindi non sono che espressioni del mistero che la natura rappresenta per l’uomo. Il mistero esprime bellezza, una bellezza che travalica i limiti della comprensione umana. Così «gli angeli immagino che siano vicini ai vegetali nella loro freschezza. I vegetali esprimono bellezza, sempre, -in forme astratte, mobili – anche se li ritrovi morti, anche nelle putrefazioni autunnali, e altri misteri». Ci sono infatti cose misteriose «al di là del nostro sapere» che non si vedono e che le leggi della scienza umana non traducono. «Ma esistono?» arriva a chiedersi infine il poeta, forse ci sono «trasportatori d’anime», ma «gli inganni sono molti e le suggestioni». La sola cosa da farsi per avere una possibilità di comprensione è sdraiarsi nell’erba, recuperare il contatto con la terra riavvicinandosi così alla Natura. Ecco allora che finalmente «la voce della natura ha il volto rupestre di Dio »
Epilogo
Sulla scorta del De rerum natura quest’opera di poesia contemporanea ripropone una conoscenza del mondo che è dissoluzione della compattezza del mondo, minuta percezione dell’infinitamente piccolo. Lucrezio nel suo poema vuole cantare anzitutto la materia, la concretezza fisica, e per farlo ci avverte subito che questa materia è fatta di corpuscoli invisibili: la parcellizzazione atomica diventa allora la via per ricercare una comune origo naturale tra gli esseri viventi. È questa poesia dell’infinita potenzialità dell’invisibile, che produce materia in varie forme, a interessare il nostro Bacchini: una gnoseologia che passa attraverso la polverizzazione della realtà per approdare infine alla conoscenza della totalità del mondo. Va detto che i testi fin qui presentati appartengono in larga misura alla raccolta poetica delle Scritture vegetali e solo alcuni si trovano nelle Contemplazioni meccaniche e pneumatiche. Sono queste due opere, intervallate dalla raccolta di haiku Cerchi sull’acqua, che costituiscono quelle che qui abbiamo voluto chiamare le scritture naturali di Pier Luigi Bacchini. La parentesi haiku meriterebbe invero un’analisi a parte, e vista l’estrema differenza di linguaggio poetico si è deciso di non includerla in questa trattazione. Le Contemplazioni invece, pur presentando significativi miglioramenti rispetto alle Scritture vegetali, ne proseguono e sviluppano i temi e le soluzioni stilistiche. Non è dunque possibile pensare alle Contemplazioni senza riferirsi immediatamente alle Scritture, che ne sono la chiave di lettura ed interpretazione. A questo punto la miglior conclusione possibile non posso che trovarla nelle stesse parole del poeta. In Ritiro, testo conclusivo delle Scritture vegetali, si possono ravvisare alcune delle questioni e delle tematiche fin qui espresse.
E quando certi uomini arriveranno anche qui,
a guardarmi nella pergamena della mia pelle
come una cosa passata,
allora conosco verso la montagna altri luoghi
su per la Val Ceno, o gli aridi posti dei valichi, sulla Cisa,
-dove piccoli fiori
vivono sotto nubi fredde.
E quando uomini
arriveranno anche lassù, allora sarò morto,
perché la cosa necessaria
a un certo giorno è la morte.
Verranno uomini con un esercito di macchine
e con tasti silenziosi. E vi sono bellissime donne,
ma le mie ossa
cigolano e le arterie si occludono
e non trovo più tanta bellezza e novità
da nessuna parte. La morte è più necessaria
che continuare a vivere tra gente sconosciuta
e senza regola, né monacale né erotica,
chissà dove andrà,
a popolare pianeti momentanei
illuminati, scintille.
Zola
Di Zola
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