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Recensione Vitaliano Brancati 1 Scritto a Catania tra il 1934 e il 1936, ma pubblicato solo nel 1941 dalla casa editrice fiorentina Parenti, il romanzo Gli anni perduti si può considerare come il primo e vero romanzo di Vitaliano Brancati in cui risulta chiaro il suo definitivo allontanamento dall’ideologia fascista e la sua profonda amarezza e disillusione verso la realtà storico-politica del suo tempo. Quest’opera, intrisa di umori gogoliani e cechoviani, segna, infatti, il definitivo distacco dalle opere da lui scritte precedentemente e preannuncia i temi e lo stile che saranno propri del Brancati maturo. Anche se, appunto, le tematiche trattate preannunciano quelle delle sue opere migliori (non più miti ed errori, ma la realtà vista nel suo aspetto più cupo e deludente) e anche se lo stile si fa più pungente e ironico, l’opera risente ancora di un certo gusto barocco. Frequentissimo è l’uso della metafora (in un certo senso tutta l’opera, a cominciare dal titolo, è una grande metafora) che però, a differenza delle opere precedenti, non è più usata per sfuggire la realtà, ma al contrario per esprimere il rapporto tra l'uomo e questa in maniera nuova. La cupa protagonista del romanzo è la noia: a Natàca (il nome, immaginario, corrisponde all’anagramma del nome greco di Catania ed è un velo per mascherare la sua città del cuore) non accade mai nulla. I bar della città brulicano di uomini che ad uno sguardo superficiale possono sembrare contenti, ma che a ben guardare rivelano un’aria rassegnata e quasi di sofferenza, “come se una catena scorresse sotto i tavoli e tenesse legati gli avventori”. Anche le ragazze sono divorate dalla noia e nella noia annegano tutti i personaggi del romanzo, rappresentati da benestanti sfaccendati, intellettuali in vacanza permanente da ogni impegno e quindi anche dalla vita. Il libro è imperniato tutto sulla storia, o sulla non-storia, di tre amici tra i quali si distingue Leonardo, che dei tre personaggi è il più chiaramente autobiografico. A sconvolgere la tranquilla noia di Natàca arriva il professor Buscaino, un personaggio strano e misterioso che ha un’idea sconvolgente: costruire una torre panoramica “che svetti tra le basse case tutte uguali di Natica”. Tutti i personaggi, spenti, da sempre inoperosi, si lasciano prendere da quest’idea bizzarra. L’impresa faraonica coinvolge tutta la città per ben dieci anni. Questo non è sufficiente per risvegliare gli abitanti di Natàca dal loro torpore: “essi vivono in una sorta di buio permanente che potrà essere dissolto solo in un futuro, quando la torre sarà completata”. La speranza e la salvezza sembrano rappresentate dalla luce e dalle cose che si potranno vedere dalla torre. Ma l’attività frenetica dell'impresa e le speranze degli abitanti di Natàca vengono vanificate appena un momento prima di essere raggiunte. La burocrazia nega il permesso dell’apertura della torre. Nessuno lo sapeva ma da ben quattordici anni esisteva a Natàca il divieto di costruire torri panoramiche per evitare possibili suicidi. Da questa sconfitta collettiva Leonardo sarà quello che ci perderà di più, forse perché era quello che ci aveva creduto di più. Chi in qualche ci modo ci guadagnerà sarà invece Buscaino che riesce finalmente ad andarsene da Natàca e che per questo motivo appare all’amico come “la mosca che giunge stentamente all’orlo del bicchiere dopo essere uscita dal latte”, e che proprio alla fine riuscirà a confessare a sé stesso di non essere mai stato in America e ad esternare la presenza di un altro sé stesso più vero e più onesto che forse in questa nuova situazione poteva ancora ricominciare a vivere. Di gianpaolo.mazza
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