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Recensione Octavio Paz Approfondimento
a cura di Alessandro Carlini
Octavio Paz nacque in Messico ai tempi di Zapata e morì al tempo di Marcos. Fu ambasciatore in India e combattente per la libertà in Spagna, premio nobel ed esule volontario.
Poeta, romanziere, saggista e polemista, critico, fondatore di riviste e gruppi teatrali: nella sua estesissima opera alternò e combinò l’impegno socio-politico e l’evocazione fantastica.
Il testo che presentiamo racconta la genesi di un’inclinazione stilistica. Di come il giovane O. Paz si accostò al surrealismo attraverso un articolo su una rivista letteraria scorta in una vetrina. Di una serie di incontri casuali con Buñuel, gran teorico della casualità. Dalla fascinazione per il surrealismo di Buñuel e dalla riflessione artistica sull’eredità culturale precolombiana nasceranno capolavori acclamati e controversi come Salamandra (1962). Universi fantastici che, al pari della Comala di Juan Rulfo, non hanno nulla da invidiare a Macondo, se non il numero di visitatori.
Avrò avuto circa diciassette anni quando sentii parlare per la prima volta di Luis Buñuel. Ero studente alla Escuela Nacional Preparatoria e avevo appena scoperto, nelle vetrine delle librerie Porrúa e Robledo, che si trovavano a San Ildefonso, i libri e le riviste della nuova letteratura. In una di quelle pubblicazioni, La Gaceta Literaria, pubblicata a Madrid da Ernesto Giménez Caballero, lessi un articolo su Buñuel e Dalí illustrato con testi di entrambi, riproduzioni di dipinti di Dalí e foto dei loro due film: Un Chien andalou e L’Âge d’or. Le fotografie mi turbarono più profondamente dei quadri del pittore catalano: nelle immagini cinematografiche la mescolanza di realtà quotidiana e delirio era più efficace e deflagrante che nell’illusionismo manierista di Dalí. Alcuni anni dopo, nell’estate del 1937, a Parigi, conobbi Buñuel in persona. Un mattino, sulla porta del Consolato spagnolo, dove mi ero recato con Pablo Neruda a ritirare un visto, lo incontrammo. Pablo lo trattenne e ci presentò.
Fu un incontro fugace. Durante lo stesso anno ebbi finalmente l’occasione di vedere i due celebri film, che ancora puzzavano di zolfo: Un Chien andalou e L’Âge d’or. Il secondo fu per me, letteralmente, una rivelazione: l’improvvisa apparizione di una verità occulta e sotterranea, ma viva. Scoprii che L’Âge d’or è dentro di noi e ha il volto della passione.
Molti anni dopo, nel 1951, ancora una volta a Parigi, incontrai di nuovo Luis Buñuel in casa degli amici Gaston e Betty Bouthoul. In quel periodo lo vidi con una certa frequenza, venne a casa mia, e infine un giorno mi chiamò per affidarmi un incarico: presentare il suo film Los Olvidados al Festival di Cannes di quell’anno. Accettai immediatamente e con entusiasmo. Avevo visto il film durante una proiezione privata con André Breton e altri amici. Particolare curioso: la notte della proiezione, al lato opposto della piccola sala, si trovavano Sadoul e altri ex surrealisti, convertiti allo stalinismo. Vedendoli pensai per un istante che sarebbe scoppiata una battaglia campale, come ai tempi della loro giovinezza. Incrociai lo sguardo di Elisa Breton, da cui traspariva una certa inquietudine, ma tutti si sedettero in silenzio e qualche minuto dopo cominciò la proiezione. Credo che fosse la prima volta che vedevano Breton, dai tempi della loro rottura, molti anni prima. Il film mi commosse: era animato dalla stessa immaginazione violenta e dalla stessa implacabile ragione di L’Âge d’or, ma Buñuel, grazie a una forma molto rigida, aveva raggiunto una maggiore concentrazione. Uscendo, Breton commentò il film facendo molti elogi, ma lamentando che aveva eccessivamente ceduto, in certi momenti, alla logica realista dei racconti, a scapito della poesia o, come diceva, del meraviglioso. Da parte mia pensai invece che Los Olvidados mostrava l’itinerario fatto da Buñuel non per superare il surrealismo – si può forse superare qualcosa, in arte e in letteratura? – quanto per staccarsene: vale a dire che il regista aveva trovato una via d’uscita dall’estetica surrealista inserendo, nella forma tradizionale del racconto, le immagini irrazionali che sgorgano dalla parte oscura dell’uomo). (In quegli anni mi proponevo qualcosa di simile nell’ambito della poesia lirica). E a questo punto forse non risulterà inutile dire che nelle opere migliori di Buñuel si manifesta una rara facoltà, che si potrebbe chiamare immaginazione sintetica. Ossia: totalità e concentrazione.
Appena arrivato a Cannes, mi incontrai con l’altro delegato messicano. Era un produttore e espositore di origine polacca che viveva a Parigi. Mi disse che era al corrente della mia nomina a delegato messicano al festival e mi segnalò che il nostro paese aveva mandato al festival un altro film. In realtà, Buñuel vi partecipava a titolo personale, invitato dagli organizzatori francesi. Mi disse inoltre che aveva visto Los Olvidados a Parigi e che gli sembrava, nonostante i suoi meriti artistici, un film esoterico, pieno di estetismi e a tratti incomprensibile. Secondo lui non aveva la minima possibilità di vincere un premio. Aggiunse che alcuni alti funzionari messicani, così come numerosi intellettuali e giornalisti, disapprovavano che a Cannes venisse esibito un film che denigrava il Messico. Questo fatto purtroppo era evidente e Buñuel ne ha parlato nelle sue memorie (Dei miei sospiri estremi), pur con discrezione e senza rivelare i nomi dei suoi critici. Farò come lui, ma non senza sottolineare che in quell’atteggiamento si fondevano le due infezioni che a quell’epoca contagiavano i nostri intellettuali progressisti: il nazionalismo e il realismo socialista.
Lo scetticismo del mio collega nella delegazione messicana era compensato dall’entusiasmo e dalla buona volontà dimostrati da vari amici, tutti ammiratori di Buñuel, tra cui il leggendario Langlois, direttore della Cinémathèque di Parigi, e due giovani surrealisti, Adonys Kyrou e Robert Benayoun, che pubblicavano una rivista d’avanguardia: L’Âge du cinéma. Visitammo molti artisti famosi che vivevano in Costa Azzurra, invitandoli alla proiezione del film. Accettarono quasi tutti. Uno dei più decisi a schierarsi a favore di Buñuel e della libertà dell’arte fu, con mia grande sorpresa, il pittore Chagall. Picasso invece si dimostrò sfuggente e reticente, e alla fine non si presentò. Mi venne in mente il suo atteggiamento poco amichevole nei confronti di Apollinaire nella questione delle statuette fenicie.
Il più generoso fu il poeta Jacques Prévert. Viveva a Vence, a pochi chilometri da Cannes; Langlois ed io lo andammo a trovare: gli riferimmo le nostre preoccupazioni e pochi giorni dopo ci mandò un poema in onore di Buñuel, che ci affrettammo a pubblicare. Credo che fece un certo scalpore fra i critici e i giornalisti presenti al Festival.
Scrissi un breve saggio di presentazione, Il poeta Buñuel. Dato che non avevamo soldi, lo stampammo al ciclostile. Il giorno della proiezione di Los Olvidados, sulla porta del cinema, lo distribuii ai presenti. Due giorni dopo venne riprodotto da un quotidiano di Parigi. Il film di Buñuel provocò immediatamente molti articoli, commenti e discussioni. Le Monde lo esaltò, ma L’Humanité lo definì “un film negativo”. Erano gli anni del realismo socialista, e come valore centrale delle opere d’arte veniva esaltato “il messaggio positivo”. Ricordo la discussione accanita che ebbi una sera, poco dopo la prima, con Georges Sadoul. Mi disse che Buñuel aveva ‘disertato’ il realismo autentico e che sguazzava, seppure con talento, nelle acque nere del pessimismo borghese. Gli risposi che il suo utilizzo della parola ‘disertare’ rivelava quanto l’idea che aveva dell’arte fosse degna di un sergente, e che con la teoria del realismo socialista si voleva nascondere la realtà sovietica, che non era per nulla socialista… Il resto è noto: a Los Olvidados non fu assegnato il primo premio, ma con questo film inizia il secondo e grande periodo creativo di Buñuel.
[da El ojo – Buñuel, México y el Surrealismo, Consejo Nacional para la Cultura y los Artes, México D. F. 1996].
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