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Recensione Sergio Sozi

Sergio Sozi

Il maniaco e altri racconti - Incipit

Per gentile concessione dell'autore, riportiamo di seguito l'incipit del racconto ''Domitilla'', che sarà compreso nella raccolta ''Il maniaco e altri racconti'' (Valter Casini Editore), in vendita nelle librerie italiane a partire da marzo del 2007.


In riva al mare è un'altra cosa, sempreché qualche rèfolo di antica poesia sia rimasto, ballerino, sulla battigia: per far innamorare i granchi e le acciughe della luna e sposare questa al firmamento.
Si abbottonò la leggera bruna giacca da mezza stagione. Era spiegazzata, notò, nonostante la semicaligine notturna del luogo che, a quell'ora notturna, avrebbe potuto anche concedere al modesto specchio d'acqua qualche centigrado in meno. Il mare è spregiudicato, pensò, percorso da ben altre fantàsime estive: i fiati razzolanti e maleducati, accartocciatori d'ogni stoffa e viso.
Nel torrido, spento fiato lacustre, il carabiniere piuttosto fiaccamente si accucciò sopra un bianco pietrone, levigato più, immaginava, dai turbini invernali, che per via di quel montano catino àcqueo. Il vento gli sembrava ovvio che giocasse a nascondino, nell'immote sera e la sua tana doveva essere lontano.
è acqua dolce questa, eh, certo… L'inevitabile sigaretta sfiaccolò fra indice e medio come a voler bruciare certe vaghe ma invadenti rimembranze: gabbiani, sabbia ustionante, luce; forse un gabbiano, sempre quello, siciliano, ed una sabbia, sempre quella, avvolgente e materna: la grande madre meridionale con cui bisogna far attenzione a come si guarda, a come si spargono volatili parole e aligere movenze palmari. Perché, quando uno sbaglio approda all'occhio e alle dita, nel Sud si resta nudi e a niente vale cercar di mascherare la malapensata con scaltre trame di parole, come provò a fare – invano – Penelope, che meridionale era par ecsellàns. Invece qui, nel nero, folto e profondo pelo degli Appennini, le chiacchiere sostituiscono i nostri gesti rivelatorî; chissà, forse perché, dicono, il freddo imperversa sugli uman corpi, rattrappendo tutti gli arti eccetto la lingua.
Una vacanza umbro-marchigiana extra (e dopo vedremo perché), comunque, quella di Santonastasio, seppur funesta per torrida atmosfera: roba né settentrionale né sudista, pensò egli ancóra, acciaccando sui sassi il mozzicone, nella solitudine di quelle inusuali tre antemeridiane; robba da matti 'sta liquidificante insistenza del fuoco solare anche noctetempore ed anche qui, a mille metri di quota e sessanta chilometri in linea d'aria dall'Adriatico.
Cercando, ora con vera disperazione, una ulteriore via di fuga dai suoi insistenti gabbiani trinàcri, il capitano provò per un istante a guardare intorno: il Lago di Pilato era ad un palmo da lui e sarebbe dovuto restare supino, umile, sotto l'alta chierica del Monte. Il Monte della Sibilla, li sopra, a poca distanza, con anfratti e spechi d'intonsa tetraggine fra la nigra sparuta vegetazione. Ad un paio di chilometri sarebbe dovuto rimanere anche il giaciglio, cioè la affumicata casa in pietra del gentile suo ospite.
Oh, bene: la accecante Sicilia è finalmente scomparsa e quindi tacciono i gabbiani; chiusi gli occhi delle salde madri; assorbita nella forza dell'oggi la morbida rena che fu.
Incamminandosi nuovamente per la stradina imbrecciata che aveva fatto per giungere alla solinga riva, Euterpe tornò a ringraziare, tutto sommato, le circostanze, per le quali, il quindici agosto del Duemilaquattro, egli si trovava ad odorare l'aspra cima del Monte sibillino invece che le sòlite ottimistiche facce venete improfumate quanto teatrali. Sono finte tucùr, piuttosto, direbbe un franco d'oggi, le belle sode fisionomie cui certa levantina Italia deve molta aziendale invidia.
Su questo rifletteva Santonastasio mentre, ad occhio e croce per via del buio, avviavasi all'ospital rifugio. E però ancora non si sa come egli sia ivi finito, attorniato da poche, quasi alpestri, presenze e forse anche da una pletorica quantità di saltellanti lemures e larvae – gli imponderabili vicini che la materia mai non mostra, altresi détti spiriti troppo liberi.
Comunque il Nostro, presa la strappata mulattiera sotto ai piedi – fettina lunare osservante – diede abbrivio agli stanchi pié desiderando esplicitamente dirigersi a Montemonaco; anzi da Vincenzina, sarebbe più esatto riferire. Da lei… Vincenzina…
Vincenzina della casa ch'è un nido, una baita, una masseria, un casolare… boh! Vincenzina l'amica dell'amico, ecco. Chi se ne frega di che cosa sia quella costruzione: è antica e tanto basta per collocarla fra i nostri discorsi e sentimenti e appenniniche cogitazioni. Una casa in pietra biancosporca, è, e bando ai linguistici monstri.
Eppoi, questo, Euterpe non lo pensa proprio adesso, oramai, poiché s'è sdraiato e ronfa nel sacco a pelo come uno scaut. A tre centimetri dalla negra Sibilla appena appena poderosamente innevata in su la cima, tozza e massiccia com'è, ma nel complesso frigida quantunque cinta da valligiani e presumo anche mezzacostali calori. Bruciori moderni il cui assedio vorrebbe spremere qualche bestemmia al nostro carabiniere. Anzi carabbenière. Ma dorme, lui, quindi non bestemmia, graziaddio. (…)

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